Fate girare ,questa serva si aspettava una risposta diversa,invece ha preso una tranvata . Lo hanno censurato sulla rete , postano solo dichiarazioni contro il M5S pic.twitter.com/d2UWyMzXWP— Mauri🌟 (@Morison59) 26 marzo 2019
mercoledì 27 marzo 2019
"Quello che dite sul M5S è falso, state mentendo". Ci voleva un politologo francese per sputtanare in diretta i media italiani
Scanzi: "Con Conte per la prima volta dopo 30 anni gli italiani non si vergognano del proprio Premier"
(Andrea Scanzi) – Se volete ridere (per non piangere), rileggetevi gli epiteti con cui venne accolto Giuseppe Conte tra maggio e giugno. Neanche aveva cominciato a fare il Presidente del Consiglio, che già era stato dilaniato dalla stessa classe dirigente che – con la sua incapacità – aveva aperto la strada al Salvimaio e dalla stessa informazione che – con la sua ruffianeria – ne aveva incensato i predecessori. Conte era un millantatore, un prestanome, un incapace: un omino inutile, telecomandato come Ambra con Boncompagni. E questi erano i complimenti: di solito lo si riteneva null’altro che un mezzo deficiente, comandato per giunta da due minus habens come Salvini e Di Maio. E’ ancora il parere di chi resta turborenziano, tipologia umana che temo non potrebbe essere salvata neanche dal combinato disposto di Jung e Freud.
Era più che lecito avere dubbi su un sostanziale sconosciuto, scelto dal M5S come Ministro della Pubblica Amministrazione nell’impossibile monocolore 5 Stelle e – di colpo – catapultato in cima a un governo di per sé stravagante. Ora, però, se ci fosse un minimo di onestà intellettuale e non questo generalizzato tifo purulento di qua e di là, bisognerebbe ammettere come e quanto Conte stia stupendo: in positivo. Ne è prova ultima la risoluzione, colpevolmente tardiva ma politicamente encomiabile, del caso Sea Watch-Sea Eye. Una risoluzione (si ribadisce tardiva, e in quel ritardo c’è tutta la colpa del governo italiano e dell’Unione Europea) che dimostra non solo il talento diplomatico di Conte (e Moavero), ma pure la sua autonomia. Da mesi va avanti la nenia secondo cui, nel governo, faccia tutto Salvini. A furia di ripeterlo nei social e talkshow, è divenuto una sorta di Dogma. Ma è così vero che Salvini regni e signoreggi su Di Maio, Conte e il mondo intiero, compresa la non marginale Galassia di Andromeda? E’ vero mediaticamente ma non politicamente: a parte il Dl Sicurezza, pieno peraltro di storture, per ora di concreto Salvini si è fatto – più che altro – le pippe a manetta. Conte, reputato “prestanome” dagli stessi che celebravano Monti (noto filantropo vicino ai deboli), veneravano la Diversamente Lince di Rignano e santificavano Gentiloni dimenticandosi quel suo essere “prestanome” di Renzi, ha più volte messo all’angolo Salvini. Sulla Sea Watch, sugli inceneritori, sulla legge anticorruzione. E si spera pure su trivelle e Tav.
A settembre, in tivù, osai affermare che sul Salvimaio avevo (ho) miliardi di dubbi e certe cose mi facevano (fanno) schifo il giusto, ma che Conte era la sorpresa più positiva dell’esecutivo e che mi pareva già allora il miglior Presidente del Consiglio dai tempi di Prodi. Fui massacrato, e ovviamente il massacro arrivò dai soliti scienziati rintanati nei loro attici con vista grandangolare sul proprio ombelico. Oggi ribadisco il concetto, ben sapendo che neanche gli faccio tutto ‘sto gran complimento: anche una sogliola morta di onanismo sarebbe preferibile a Renzi.
Conte è migliorato pure nei suoi discorsi in Parlamento, dove all’inizio soffriva parecchio, e in tivù, dove – altro suo unicum – si ostina ad andare pochissimo. Le prime volte, da Floris a ridosso del voto (quando raccontò di provenire dalla sinistra) e poi ancora a DiMartedì dopo la nascita del Salvimaio, parve moscio. Idem all’esordio da Vespa, durante la quale mostrò il santino di Padre Pio a cui è devoto. Pochi giorni fa, ancora a Porta a porta, si è rivelato molto più sicuro e quasi baldanzoso (“Salvini non vuole sbarchi? Vorrà dire che li farò prendere in aereo..”). L’uomo non disdegna l’ironia. A volte esagera (“I tagli ai pensionati sono impercettibili, nemmeno L’avaro di Molière se ne accorgerebbe”) e a volte ci prende (“Chi butto dalla torre tra Renzi e Gentiloni? Renzi si è già buttato da solo…”). Sottovalutandolo (quasi) tutti oltremodo, hanno finito col rendere ancora più evidenti le sue qualità: un’altra delle troppe cantonate di una cosiddetta “opposizione” che non riuscirebbe a essere così ridicola neanche se ci si impegnasse deliberatamente.
Aggiungo un ultimo aspetto legato alla sua veste diplomatica. Quando Conte va all’estero, è assai a suo agio con le lingue (compresa quella italiana: e già qui c’è del clamoroso). Non solo: ai summit coi (presunti) grandi della terra, non fa le corna e neanche si improvvisa ilare bullo come quell’altro gradasso quando incontrava Schultz. Cordiale, affabile: sicuro di sé. Forse è la prima volta dal 2006 che tanti italiani non si vergognano di un Presidente del Consiglio. Non che Conte sia un fenomeno: è solo un uomo serio e normale alla guida di un governo improbabile e sbilenco, che a volte le indovina e più spesso no. Ma anche solo essere “normali”, in questi tempi di fenomeni finti e politica sputtanata, suona quasi rivoluzionario.
Incredibile, per la Chiesa chi usuffruisce del Reddito di cittadinanza è un parassita!
Navigator (e non era facile) non è la peggior parola che accompagna il dibattito sul reddito di cittadinanza, giunto ormai a livelli pornografici. Dopo mesi di “fannulloni” (in apertura anche mercoledì di Libero) e “divanisti” (su tutti i giornali), ci mancava “parassiti”. Ed è stupefacente che a pronunciarla, questa parola, siano i vescovi: “Tra i rischi del Reddito di cittadinanza c’è quello di attenuare la spinta a cercare lavoro o a convincere a rinunciare a offerte di lavoro che prevedano una retribuzione non distante da quanto previsto dal Reddito”, hanno detto i rappresentanti dell’Ufficio nazionale per la Pastorale sociale e del Lavoro della Cei e il Comitato scientifico delle Settimane Sociali dei Cattolici Italiani in audizione alla Camera. La scomunica si conclude così: “È enorme il rischio di aumentare queste forme di cittadinanza non solo passiva ma anche parassitaria nei confronti dello Stato”.
È l’effetto “spiazzamento” o “scoraggiamento” denunciato da Confindustria e dall’ex presidente dell’Inps Tito Boeri: 780 euro, ci hanno spiegato, è più o meno lo stipendio medio degli under 30 ed è superiore al salario di quasi il 45% dei dipendenti privati del Sud. Ora che lo dicono anche i vescovi, i giornali (quelli “della reazione”, come avrebbe detto Peppone) giubilano perché finalmente c’è qualcuno che fa opposizione al populismo. E porta perfino la tonaca e ha in mano il Vangelo dell’ama il prossimo tuo come te stesso.
C’è un’offesa più svilente di “parassita”? No, ma del resto lo squallore a cui il Paese è giunto si misura dal fatto che se cinque milioni di poveri vengono sbeffeggiati quotidianamente a reti unificate nessuno se ne accorge mentre se un cantante famoso negli anni Ottanta viene ridicolizzato in televisione perché forse la moglie gli fa le corna, l’opinione pubblica s’indigna. Ora i destinatari del reddito di cittadinanza sono persone povere che non hanno un lavoro: e i poveri, ci risulta, dovrebbero essere al centro del messaggio evangelico tanto che la Chiesa è molto attiva nelle attività caritatevoli. Escludendo che siano i vescovi (occupati in ben altre questioni morali) a temere di perdere il lavoro, resta incomprensibile la ragione per cui vogliono colpevolizzare i destinatari del reddito, additandoli come parassiti. La nostra Costituzione è, nella prima parte, informata del principio di solidarietà e inclusione. Non solo il lavoro è fondamento del patto sociale che ci governa (la Carta, appunto), ma il lavoratore ha diritto (articolo 36) a una retribuzione sufficiente ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa (cari Vescovi, non i 780 euro del reddito). E in caso di disoccupazione involontaria (articolo 38) è previsto che sia lo Stato a provvedere. Del resto, per farci capire, San Paolo (Tessalonicesi 3,1) la regola la enuncia chiaramente: “Chi non vuol lavorare, neppure mangi”.
La malizia del dibattito è tutta nell’alea della volontarietà: non lavori perché non ti sei dato abbastanza da fare, perché non sei disposto a fare sacrifici, a guadagnare una miseria, a essere precario per tutta la vita. La classe lavoratrice non esiste più, esistono i singoli più o meno capaci di cavarsela in una contrattazione che, ovviamente, non è mai un gioco alla pari. Nessuno che si domandi a chi conviene questo mercato del lavoro così frammentato in termini di diritti e sempre meno tutelato, dove chi lavora non riesce troppo frequentemente a mantenersi. Nessuno che punti il dito contro chi alimenta la ferocia di un capitale mai sazio di profitti, ormai completamente libero di agire perché le tutele dei lavoratori sono state via via smantellate (grazie, anche ma non solo, ai compagni del Pd).
Così è normale che il ministero del Lavoro pubblichi un bando in cui cerca consulenti qualificati (almeno 5 anni di esperienza in diritto nazionale, europeo, societario, bancario, dei mercati e intermediari finanziari) a titolo gratuito: tanto fa curriculum. Si lavora di più, si guadagna di meno, talvolta non si guadagna proprio. In questo quadro soffiare sul fuoco della guerra tra poveri fa il gioco di quelli che una volta si chiamavano padroni e ora sono i padroni del mondo: loro sono flessibili perché ci mettono una notte a delocalizzare una fabbrica. Volete che non siano flessibili anche le bocche di quelli che ci lavorano? Solo che la guerra tra poveri interessa solo quando si tratta di immigrati, per via del pericolo razzismo: è vero, siamo un Paese razzista, soprattutto perché tolleriamo ghetti e baraccopoli dove i migranti vengono sfruttati dai caporali per 5 euro al giorno.
Siamo sicuri che sia evangelico stare dalla parte degli sfruttatori e prendersela con gli ultimi chiamandoli “parassiti”?
Più soldi ai parlamentari: L’ultima porcheria richiesta dal Pd è da vergogna totale
Luigi Zanda, la proposta suicida del Pd sugli stipendi dei parlamentari: come li vogliono aumentare
Proprio quando il Partito democratico sembrava recuperare un briciolo di consensi negli ultimi sondaggi, l’istinto suicida dem è riemerso prepotente con l’ultima idea del tesoriere del partito di Nicola Zingaretti, Luigi Zanda. Il senatore ha firmato una proposta per aumentare gli stipendi dei parlamenti, equiparandoli a quelli dei colleghi che siedono al Parlamento europeo. Come riporta il Fatto quotidiano, con le modifiche alla legge proposte da Zanda, nel complesso i parlamentari arriverebbero a incassare tra i 16mila e i 19mila euro al mese, contro i circa 14mila che già percepiscono oggi.
E come se non bastasse, Zanda ha anche avanzato una modifica che all’articolo 1 coma b prevede “un’indennità transitoria a carattere temporaneo determinata nella misura dell’identica indennità corrisposta ai membri del Parlamento europeo”. E al comma c: “un trattamento differito di natura assicurativa, il cui diritto matura a condizione che sia scaduto il mandato parlamentare e che il beneficiario abbia compiuto il sessantatreesimo anno di età”.
A tradurre in parole povere ci ha pensato il capogruppo M5s al Senato, Stefano Patuanelli: “Insomma, si chiamano con altro nome il Tfr e i vitalizi e si aggiunge anche una pensione di invalidità, per non farsi mancare nulla”.
"Dopo crollo Ponte Morandi report falsi su altri 5 ponti". Guai per Autostrade, indagati per falso due manager
Michele Donferri Mitelli, da poco trasferito ad altro incarico, e Antonio Galatà, il numero uno della società controllata del gruppo Atlantia che si occupa delle manutenzioni, sono accusati di falso. I loro nomi si aggiungono a quelli di 10 tecnici delle due società già sotto inchiesta per la presunta edulcorazione dei risultati dei test
L’ex responsabile nazionale delle manutenzioni di Autostrade e l’amministratore delegato di Spea sono indagati nell’inchiesta-bis, aperta dopo il crollo del ponte Morandi, per i falsi report su cinque viadotti autostradali. Michele Donferri Mitelli, da poco trasferito ad altro incarico, e Antonio Galatà, il numero uno della società controllata del gruppo Atlantia che si occupa delle manutenzioni, sono accusati di falso. Secondo la procura di Genova, i manager ai vertici delle due società erano a conoscenza della presunta falsificazione, avvenuta dopo il collasso del Morandi, dei report sullo stato di salute di alrti ponti.
I loro nomi si aggiungono a quelli di 10 tecnici di Autostrade e di Spea già iscritti nel registro degli indagati dopo gli accertamenti della Guardia di finanza sui risultati ‘edulcorati’, secondo gli investigatori, di alcune ispezioni su cinque ponti nel corso delle quali sarebbero stati riscontrati ammaloramenti in piloni e solette. Per l’accusa, in certi casi, i report erano quasi routinari e quindi non corrispondenti al vero stato dei viadotti Paolillo sulla Napoli-Canosa in Puglia, il Pecetti e il Sei Luci a Genova, il Moro vicino a Pescara e il Gargassa a Rossiglione. Con i nomi di Donferri Mitelli e Galatà, insomma, l’inchiesta fa un salto di qualità arrivando nelle stanze dei manager di Autostrade e Spea.
La circostanza era emersa nel corso degli interrogatori dei testimoni durante le indagini sul crollo di ponte Morandi. In particolare i tecnici di Spea avevano raccontato agli inquirenti che i report “talvolta erano stati cambiati dopo le riunioni con il supervisore Maurizio Ceneri (ingegnere di Spea) mentre in altri casi era stato Ceneri stesso a modificarli senza consultarsi con gli altri”.
Alla luce delle relazioni acquisite negli scorsi mesi e delle dichiarazioni rese da testimoni e indagati nel filone sul crollo del ponte Morandi, collassato il 14 agosto 2018 provocando 43 morti, la procura di Genova aveva inoltre allertato il ministero delle Infrastrutture su cinque ponti proprio per fare avviare accertamenti. A supporto delle indagini, ci sono anche alcune intercettazioni telefoniche pubblicate da Il Fatto Quotidiano lo scorso 9 marzo.
Caos rifiuti a Roma, il Magistrato Sabelli sta con la Raggi: "Dietro roghi potrebbero esserci interessi criminali"
Per il magistrato ed ex assessore Sabella non si può escludere che dietro i roghi ci siano interessi criminali
“Non si può escludere nulla. È chiaro che sul traffico di rifiuti gli interessi economici sono altissimi, dunque l’ombra di interessi criminali c’è”. Il magistrato ed ex assessore capitolino alla Legalità al tempo della giunta di Ignazio Marino, Alfonso Sabella, non ha paura di avanzare quella che ad oggi resta solo una lontana ipotesi sullo sfondo ma che, dopo il secondo caso di roghi all’impianto Salaria nel giro di tre mesi, non è poi così remota. “Dopo anni di esperienza da magistrato, dico che non si può escludere nulla”.
Neanche la mano mafiosa?
“Sta indagando la Procura, dunque lascio a chi è competente il ruolo di svolgere le indagini. Ma è chiaro che sul traffico di rifiuti gli interessi economici sono altissimi, dunque l’ombra di interessi criminali c’è”.
Non c’è dubbio che intorno al ciclo dei rifiuti ruota uno dei più grandi business che fa gola alle criminalità. Roma potrebbe essere nel mirino?
“La mia esperienza mi insegna che laddove ci sono soldi che girano e ci sono crepe nel sistema amministrativo, lì le criminalità organizzate tentano di insediarsi e fare affari”.
Potrebbe essere il caso della nostra Capitale?
“Roma è la più grande e popolosa città d’Italia, oltre ad essere capitale. È chiaro che statisticamente produce più rifiuti di tutti. Ha poi una gestione che presenta com’è noto delle criticità. Da questo punto di vista Roma ha tutte le caratteristiche per essere oggetto predatorio e di maggior interesse delle mafie. E a tutto questo c’è da aggiungere che sul piano della raccolta e del trattamento Roma non ha fatto passi avanti, ma passi indietro”.
Per quale ragione secondo lei?
“C’era un percorso avviato. Io credo che un percorso, avviato con Ignazio Marino, sia stato interrotto. Poi se sia cominciato un altro percorso, questo lo vedremo. Per ora i risultati credo siano sotto gli occhi di tutti i romani”.
Ci sono gli anticorpi per frenare eventuali mire criminali?
“A Roma gli anticorpi purtroppo credo che ancora non ci siano, né siano stati creati. Si continua in un’opera di negazionismo che non fa bene alla città”.
In che senso?
“Roma si è svegliata mafiosa con il funerale cafone dei Casamonica in mezzo a carrozze, rose e cavalli. Non si è compreso, invece, che quello era solo l’epifenomeno di un fenomeno che già era presente in città da tanto tempo. Tutti i rapporti dei vari osservatori e della stessa antimafia segnalano da tempo che a Roma ci sono piazze di spaccio”.
Per alcuni non è un dato così eclatante.
“E invece piazze di spaccio significa inevitabilmente controllo del territorio da parte delle mafie. Parliamo di luoghi blindati e controllati da vigilantes, cancellate, telecamere; parliamo dunque di territori sottratti allo Stato e ora in mano alla criminalità. Le istituzioni romane dovrebbero cominciare a capire e a confrontarsi con questi problemi in maniera molto più seria di quanto fatto finora. Non c’è più tempo per rimandare”.
Crede che il problema a Roma, un po’ come al Nord, sia stato quello di pensare che la mafia non esiste?
“È fisiologico che i cittadini rifiutino l’idea che nella propria città ci siano presenze mafiose. Però per combattere un fenomeno bisogna conoscerlo. Purtroppo a Roma le istituzioni per troppo tempo hanno preferito non rendersene conto”.
Aspiranti poliziotti beffati da Salvini: Regole cambiate a due anni dal concorso: escluso chi ha più di 26 anni
Oramai è diventato un habitué: un giorno sì e l’altro pure vediamo il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, indossare la divisa della Polizia di Stato, in segno – dice lui – di rispetto e vicinanza alle forze dell’ordine. Ma è alquanto paradossale che se il leghista, oggi 46enne, fa sfoggio di berretti e giubbotti della Polizia per mera apparenza, il suo stesso partito abbia impedito a ragazzi tra i 26 e i 30 anni di diventare agenti. E l’ha fatto cambiando le regole in corso d’opera.
Il mondo che si nasconde dietro la narrazione leghista, dunque, è meno roseo di quello che il Carroccio tende a disegnare, tanto che è addirittura nato un comitato che nei giorni scorsi si è radunato in protesta proprio davanti Montecitorio. Ma facciamo un passo indietro. È il 26 maggio 2017 quando in Gazzetta viene pubblicato il concorso per reclutare 1.148 allievi agenti della Polizia. Tra i vari requisiti specificati all’articolo 4 del concorso: la licenza media e l’avere tra i 18 e i 30 anni. Tutto sembrava andare per il meglio, dunque, tanto che a maggio 2018 gli idonei hanno iniziato la fase di formazione presso gli istituti della Polizia, dopo la prima prova scritta e una seconda prova sulla base degli accertamenti fisici, psichici e attitudinali.
E in base a tali prove sono state stilate le graduatorie degli idonei. Ma è qui che accade quello che, probabilmente, nessuno si sarebbe aspettato. Nel mese di gennaio 2019, viene presentato e approvato un emendamento al Dl Semplificazione che cambia, a due anni dal concorso, i requisiti per lo scorrimento delle graduatorie. E a presentarlo sono stati sei senatori leghisti, lo stesso partito di quel ministro sempre pronto a difendere – così pare – i poliziotti. Nel dettaglio l’emendamento ha di fatto escluso chi alla data del primo gennaio 2019 ha compiuto 26 anni e chi non è in possesso di diploma di scuola secondaria di secondo grado.
Regole, insomma, completamente differenti rispetto a quelle stabilite in un primo momento, con la conseguenza che chi casomai aveva avuto un punteggio più alto si vedrà scavalcato solo per una questione anagrafica non pattuita prima. “Abbiamo partecipato al medesimo concorso, svolto la medesima prova di selezione, studiato la medesima banca dati: non è assolutamente giusto cambiare le regole in questo modo”, denuncia il comitato. A nulla, almeno per ora, sono valse le proteste. Tanto che il 13 marzo il capo della Polizia, Franco Gabrielli, ha emesso il decreto che individua i soggetti tra coloro che siano in possesso dei nuovi requisiti anagrafici e di studio. Come denunciato in un’interrogazione di Forza Italia a prima firma Fiammetta Modena, sono state pubblicate 3 distinte tabelle (tabella “a”: ammessi; tabella “b”: esclusi; e tabella “c”: da accertare per l’ammissione).
Ad essere ingiustamente esclusi (tabella “b”) saranno 1.471 ragazzi, a cui vanno aggiunti indicativamente altri duemila candidati non in possesso dei nuovi requisiti (tabella “c”). Ma, dicono ancora dal comitato, potrebbero essere interessati da questo provvedimento circa “14mila candidati risultati idonei alla prova scritta”. Tra gli esclusi c’è anche Pierluigi: per la prova scritta bisognava superare il punteggio di 6. “Io ho avuto 9,5”, ci dice. Ma Pierluigi ha più di 26 anni ed è stato superato da chi ha il “merito” di essere più giovane. “Fa rabbia”. Ed è comprensibile. Ma, esattamente come tutti gli altri, non è disposto a fare passi indietro. Anche con chi indossa la divisa per poi lasciare le mani in tasca.
Parte la corsa per le europarlamentarie del M5S. Su Rousseau 2.600 candidati. Il 70% con dottorati, lauree e corsi di formazioni per parlamentari
Sono 2600, il 70% possiede una laurea, la metà ha partecipato alle iniziative di formazione ufficiali ed ha utilizzato la piattaforma e-learning per perfezionare le proprie competenze. Sono i candidati del Movimento 5 Stelle alle prossime elezioni europee: le liste sono online da oggi su Rousseau, con gli iscritti che potranno visionare i singoli profili e votarli alle prossime Parlamentarie 2019 del M5s che partiranno nei prossimi giorni. A comunicarlo è un post pubblicato sul Blog delle Stelle. “Tantissimi i profili d’eccellenza – si legge sul sito – Medici, ingegneri, architetti, psicologi, astrofisici, professori universitari, imprenditori ed esperti. Una moltitudine di professionisti provenienti dai più svariati ambiti – è spiegato – che oggi vuole contribuire con la propria esperienza e competenza al progetto del Movimento 5 Stelle in Europa“.
I pentastellati, poi, fanno sapere che “oltre il 70% dei candidati possiede una laurea, uno su sei il dottorato di ricerca e più di 1400 candidati vantano una conoscenza avanzata della lingua inglese scritta e parlata”. Per quanto riguarda la loro recente formazione, inoltre, “un candidato su due ha partecipato alle iniziative di formazione ufficiali – come i Villaggi Rousseau o il tour degli Open Day – ed ha utilizzato la piattaforma e-learning per perfezionare le proprie competenze“. La pubblicazione dei nomi, si legge sul Blog delle Stelle, “è un modo per conoscerli meglio e per esprimere la preferenza con maggiore consapevolezza. Allo stesso tempo – viene spiegato – questa fase sarà utile anche per effettuare controlli più capillari. Gli iscritti, infatti, potranno inviare eventuali segnalazioni nell’apposito form di Segnalazioni”.
Tra i nomi spicca quello di Dino Giarrusso (nella foto), ex Iena, che si era candidato alle Politiche con il M5S, nonché consulente del ministero dell’Istruzione. Ma in corsa c’è anche un ex generale dell’esercito, Calogero Antonio Iacolino, che è il fratello dell’ex eurodeputato di Forza Italia Salvatore Iacolino, e Gianluca Maria Calì, un imprenditore di Casteldaccia (Palermo) minacciato dalla mafia. Nell’elenco anche portaborse e congiunti di parlamentari in carica: Costantino Messina è il fidanzato della deputata Rosalba Cimino.
martedì 26 marzo 2019
Il filosofo Fusaro contro i giornali. "Sono tutti uniti contro il M5S"
“Una cosa è certa. I rotocalchi di destra e di sinistra, ossia del partito unico del capitale, hanno ora dato vita a una union sacrée contro il Movimento 5Stelle, in quanto corpo non affine al blocco dominante al servigio della global class degli ammiragli della turbofinanza”.
Così il filosofo Diego Fusaro su Twitter.
Secondo Fusaro “gli araldi del pensiero unico politicamente corretto ed eticamente corrotto” vogliogno “che il governo si spacchi per contraddizioni endogene e torni, così, ad aprirsi il campo per le vecchie forze di destra e sinistra, egualmente al servigio dell’élite turbomondialista e arcifinanziaria di riferimento”.
Il professore sostiene che “tutta la difficoltà nella comprensione della situazione politica odierna stia nel fatto che le vecchie categorie esattamente sono saltate”.
“Noi continuiamo spesso a muoverci del tutto in maniera ingiustificata secondo la dicotomia destra e sinistra: Lega destra e M5S sinistra” quando in realtà “è saltata questa categoria”. “Vi è un’unificazione del basso, dei ceti nazionali popolari lavoratori e imprenditoriali rappresentati dal 5 Stelle e della Lega contro l’alto delle classi della finanza, del capitale, dell’Europa” aveva spiegato Fusaro intervenendo in una trasmissione televisiva.
Bankitalia contro la nomina di Paragone a Presidente della Commissione Banche. Di cosa hanno paura?
“Si parla di veti sul nome di Gianluigi Paragone alla presidenza della commissione di inchiesta sulle banche, una cosa per noi inaccettabile perché c’è già un accordo politico e le forze della maggioranza di governo sono d’accordo a votare Gianluigi alla presidenza”, l’allarme è stato lanciato ieri da Luigi Di Maio. Il capo politico del Movimento 5 Stelle non fa nomi ma il riferimento a Matteo Salvini sarebbe evidente, solo lui può fermare la corsa di Paragone verso la prestigiosa carica alla guida dell’organismo parlamentare che nei prossimi anni dovrà fare chiarezza su quanto è successo alle banche italiane. In primis, la Commissione, dovrà verificare come è stata svolta l’attività di vigilanza sugli istituti bancari e come sia stato possibili vendere ai risparmiatori titoli così rischiosi da essersi trasformati in carta straccia.
E di certo le posizioni estremamente critiche espresse in questi anni dall’ex conduttore de La Gabbia, contro la Banca d’Italia e contro il presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, non stanno aiutando Paragone. Così come non deporrebbe a suo sfavore il feeling ritrovato tra il potente sottosegretario leghista alla presidenza del Consiglio, Giancarlo Giorgetti, e il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, dopo il pasticcio sul mancato rinnuovo dei membri del direttorio dell’Istituto di Via Nazionale e quello relativo alle nomine del vertice dell’Istituto per la Vigilanza sulle Assicurazioni.
Entrambe partite molto delicate che avrebbero suscitato la preoccupazione del Quirinale e della Bce. Ad agitare ulteriormente il delicato equilibrio di Governo sul versante degli istituti di credito, ha spiegato Di Maio “Ci sono poi delle cose che non mi piacciono e che stanno succedendo intorno alle banche: ad esempio il fatto che la legge che istituisce la commissione di inchiesta sulle banche aspetta ancora la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale da decine di giorni”.
Anche in questo caso Di Maio non fa nomi, ma il pensiero corre immediatamente al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, al quale spetta il potere di promulgazione delle leggi che vanno poi pubblicate in Gazzetta Ufficiale. Visto che è decisamente più difficile credere che manchi la firma del presidente del Consiglio dei Ministri, quel Giuseppe Conte, che proprio il leader politico dei Cinque Stelle ha voluto alla guida del Governo di cui il Movimento è il primo azionista, o quella del ministro della Giustizia, il pentastellato Alfonso Bonafede, al quale spetta il compito di vistare le leggi.
Ecco l'ennesimo "fatto" del Governo a favore del popolo: Tagliati costi di luce e gas da prossimo mese.
Dopo i picchi raggiunti nel 2018, si riducono le bollette dell’energia per i clienti in tutela. Come in parte già registrato nei primi tre mesi del 2019, nel secondo trimestre dell’anno, fa sapere l’Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente (ARERA), le famiglia godranno di un calo delle bollette dell’elettricità (-8,5%) e del gas (-9,9%). Le riduzioni sono prevalentemente legate alla contrazione dei prezzi delle materie prime nei mercati all’ingrosso dell’energia, nazionali ed internazionali.
Per quanto riguarda l’energia elettrica l’aggiornamento – valido dal prossimo 1° aprile – è guidato da un deciso calo della componente a copertura dei costi per l’approvvigionamento dell’elettricità (-12,22%), parzialmente ridotto da un adeguamento degli oneri generali (3,72%). La riduzione della componente materia prima è principalmente determinata dal ripiegamento delle quotazioni internazionali delle commodity energetiche, con una riduzione del prezzo del gas naturale stimolata anche dall’allineamento al ribasso dei prezzi tra il mercato asiatico e quello europeo.
A questo si aggiunge che dopo la significativa crescita dello scorso anno, il prezzo dei permessi di emissione della CO2 sembra ora essersi assestato. Con riferimento agli oneri generali, in un contesto comunque stabilizzato, l’Autorità è intervenuta per tener conto delle aggiornate esigenze di gettito del sistema, sempre con l’obiettivo di assicurare il riequilibrio degli effetti della precedente manovra, che nel 2018 aveva garantito una protezione rafforzata sui clienti domestici rispetto ai non domestici.
Per il gas naturale l’andamento è determinato dalla riduzione della spesa per la materia prima (-10,5% sulla spesa della famiglia tipo), legata alle quotazioni stagionali attese nei mercati all’ingrosso nel prossimo trimestre, leggermente controbilanciata da piccoli aggiustamenti degli oneri generali (0,41%) e di altre componenti connesse al trasporto e gestione del contatore (0,15%).
Per quanto riguarda una misurazione degli effetti sulle famiglie (al lordo tasse), per l’elettricità la spesa per la famiglia-tipo, nell’anno scorrevole (compreso tra il 1° luglio 2018 e il 30 giugno 2019) sarà di 565 euro. Nello stesso periodo la spesa della famiglia tipo per la bolletta gas sarà di circa 1.157 euro.
“Una riduzione nella bolletta – commenta il presidente dell’Autorità, Stefano Besseghini – è sempre un dato accolto con favore, naturalmente, ma occorre monitorarne le cause e le dinamiche con la stessa attenzione che sarebbe stata riservata in caso contrario. Il primo trimestre ci ha regalato un inverno non troppo rigido e condizioni di acquisto del gas allineate tra Europa e paesi Asiatici che hanno contribuito ad un contenimento delle quotazioni all’ingrosso. L’azione dell’autorità in questo contesto si concentra sul monitoraggio del sistema per consentire il massimo trasferimento di beneficio possibile al cliente finale.”
“Nonostante si parli di aumenti in tutti i settori – ha detto il ministro dello Sviluppo economico, Luigi Di Maio -, i costi dell’energia e del gas diminuiranno sensibilmente nel prossimo trimestre. Si tratta di un segnale importante per le famiglie italiane che incoraggia verso scelte di politica energetica che fanno bene all’ambiente e non danneggiano il portafogli degli italiani”.
“E’ un provvedimento – spiega il Mise in una nota – che avrà effetti positivi sui cittadini in particolare quelli più deboli, che potranno beneficiare nei prossimi mesi di un netto calo dell’importo delle bollette da pagare. Il Governo è infatti impegnato, insieme alle autorità del settore, a mettere in campo tutte le misure e i controlli necessari a tutelare i consumatori, favorendo al contempo una politica di riduzione dei costi dell’energia elettrica e del gas”.
domenica 24 marzo 2019
Elezioni Basilicata: Crolla dopo 20 anni roccaforte del PD. Vince l'ammucchiata del Centrodestra. M5S al 20%
Prime proiezioni dell'elezioni in Basilicata, come Abruzzo e Sardegna, vince l'ammucchiata del centro destra (40%). Il M5S cala rispetto alle politiche del 4 Marzo (dal 44% al 20%). Ma il dato storico è la caduta di una roccaforte del PD che governava la Regione da ben 20 anni.
Ecco i giornali a cui verranno tagliati i finanziamenti pubblici. Piangono Ferrara e Feltri
Uno degli impegni della Legge di Bilancio portata avanti dal governo Lega e Movimento 5 Stelle è quello di portare avanti il “graduale azzeramento a partire dal 2019 del contributo del Fondo per il pluralismo, quota del dipartimento informazione editoria”.
Tra i quotidiani, quello dei vescovi “Avvenire” ha incassato nel solo 2016 5,9 milioni di euro, ridotti a 2,5 milioni di euro come anticipo del 2017. Arriva poi “Italiaoggi” con un totale di 7 milioni di euro incassati e divisi in 4,8 milioni nel 2016 e 2,2 milioni come anticipo del 2017. “Libero” ha ricevuto invece 3,7 milioni nel 2016 e 2 milioni come anticipo del 2017. Guardando ai dati de “Il Manifesto“, nel 2016 ha ottenuto 3,1 milioni di euro e 1,3 come anticipo del 2017, per un totale di quasi 5 milioni di euro. In quinta posizione il “Quotidiano del Sud“, che ha ricevuto 2,8 milioni nel 2016 e 1,2 milioni di euro in anticipo per il 2017. Come sesto è arrivato il “Corriere di Romagna“, con quasi 890 mila euro ricevuti nel 2017.
Osservando i dati dei quotidiani distribuiti a livello nazionale, “Il Foglio” ha ricevuto poco più di 337 mila euro, meno de “Le conquiste del lavoro“, legata alla Cisl, che ha ottenuto 384 mila euro. Continuano poi a ricevere contributi le imprese editrici cooperative e quelle che si occupano di pubblicare quotidiani e periodici all’estero, le cooperative, gli enti no profit e le pubblicazioni delle minoranze linguistiche.
Tra le cooperative che pubblicano testate, al primo posto troviamo “Famiglia cristiana“, con finanziamenti superiori a 312 mila euro per il 2016 e maggiori di 130 mila euro come anticipo del 2017. “Il Biellese” ha poi ricevuto nel 2016 246 mila di euro, diventati poi 103 nel 2017, “La Guida” ha incassato 227 mila euro e 95 mila euro rispettivamente nel 2016 e nel 2017. “L’Eco del Chisone” ha invece ricevuto 223 mila euro nel 2016 e 93 mila euro nel 2017. Finanziamenti vengono percepiti anche dalle cooperative no profit, come “Il tiraggio” gestito dalla Cooperativa Esc, che ha ricevuto 318 mila euro nel 2016 e 133 mila euro come anticipo del 2017.
La Repubblica, Il Giornale, il Coriere della Sera non percepiscono finanziamenti pubblici, ma diretti. Ecco chi sno gli editori "politici"
Partiamo dal più importante quotidiano a diffusione nazionale, il Corriere della Sera. Il suo editore è il gruppo RCS (Rizzoli Corriere della Sera), quotato in borsa. Il Corsera ha fama di essere il giornale super partes per definizione, quello che meglio rappresenta il tipo di linea editoriale tipico dell’informazione anglosassone (come si dice di solito, ‘all’americana’), per definizione indipendente da interessi particolari.
Ma, analizzando il suo Cda, più che super partes dovremmo definirlo inter partes: in esso siedono infatti John Elkann, presidente di Fiat e di Exor (la holding finanziaria della famiglia Agnelli); Franzo Grande Stevens, avvocato storico di casa Agnelli, ex vicepresidente Fiat e attualmente presidente della Fondazione San Paolo; Carlo Pesenti, consigliere di Italcementi, Unicredit, Italmobiliare e Mediobanca; Berardino Libonati, consigliere di Telecom Italia e Pirelli; Jonella Ligresti, consigliere di Fondiaria, Italmobiliare e Mediobanca; Diego Della Valle, consigliere di Tod’s, Marcolin e Generali Assicurazioni; Renato Pagliaro, consigliere di Telecom Italia, Pirelli e Mediobanca; Giuseppe Lucchini delle omonime acciaierie; Paolo Merloni, CEO (Chief Executive Officer, ossia amministratore delegato) di Merloni Finanziaria, gruppo Indesit Company; Enrico Salza, consigliere di Intesa San Paolo; Raffaele Agrusti, consigliere di Assicurazioni Generali; Roberto Bertazzoni, consigliere di Mediobanca; e Claudio De Conto, di Pirelli Real Estate.
Fra Corsera e Fiat, Pirelli, Telecom Italia, Mediobanca, Intesa, e tutte le altre aziende citate, ci sono zero gradi di separazione, cioè sono direttamente collegate fra loro. Grande finanza, banche, assicurazioni, automotive, telecomunicazioni, cementifici, acciaierie, pneumatici, immobili, moda, elettrodomestici: non c’è praticamente nessun settore del made in Italy che non possa dire la sua sui contenuti e sulla posizione del giornale. Viene da dire che in Italia essere indipendenti coincide col dipendere da tutti, nessuno escluso: la linea editoriale del Corrierone nazionale risentirà quindi delle esigenze e degli accordi reciproci fra le aziende che siedono in Consiglio: nessuna visione strategica a prescindere, e una pletora di manovre tattiche in risposta alle necessità del momento.
Meno compromessa, ma solo all’apparenza, La Repubblica, che fa parte del Gruppo l’Espresso di Carlo De Benedetti. Nel Cda de L’Espresso troviamo Sergio Erede, amministratore di Luxottica; Luca Paravicini Crespi, consigliere della Piaggio dei Colaninno (dove siede accanto a Vito Varvaro, il quale a sua volta è anche nel Cda della Tod’s di Diego Della Valle) e figlio di Giulia Maria Crespi, ex direttore editoriale del Corriere ed ex presidente del Fai; e Mario Greco, consigliere di Indesit Company (dove siede anche Emma Marcegaglia) e della Saras di Massimo Moratti (già rappresentato nel Cda del Corriere attraverso i consiglieri del gruppo Pirelli).
Massimo Moratti rappresenta inoltre il trait d’union fra il Gruppo L’Espresso e la famiglia Berlusconi, poiché siede, oltre che nel Cda della Saras, anche in quello della Pirelli, accanto a Carlo Secchi, ex rettore della Bocconi e amministratore Mediaset.
La famiglia Berlusconi controlla direttamente Il Giornale, edito dal gruppo Mondadori, mentre la famiglia Agnelli è proprietaria del quotidiano La Stampa di Torino.
Il Messaggero di Roma, il Mattino di Napoli, il Gazzettino di Venezia e il Nuovo Quotidiano di Puglia sono editi dalla Caltagirone Editore, di proprietà della famiglia Caltagirone (grandi opere, cementifici, immobili): fra gli altri, siedono nel Cda di Caltagirone Editore, Azzurra Caltagirone, moglie di Pier Ferdinando Casini, e Francesco Gaetano Caltagirone, consigliere di Monte dei Paschi e di Generali Assicurazioni.
Il Resto del Carlino di Bologna, la Nazione di Firenze e Il Giorno di Milano sono invece posseduti dalla Poligrafici Editoriale, collegata con due gradi di separazione a Telecom Italia, Generali Assicurazioni e Gemina (attraverso Massimo Paniccia e Aldo Minucci); e con tre gradi di separazione (attraverso Roberto Tunioli, Sergio Marchese e Giuseppe Lazzaroni), alla Premafin della famiglia Ligresti.
Infine una notazione quasi umoristica. Libero, l’aggressiva testata di destra e Il Riformista, quotidiano timidamente di sinistra, hanno lo stesso editore (e quindi zero gradi di separazione!): Giampaolo Angelucci, proprietario di un impero fatto di cliniche e strutture sanitarie (fra cui l’ospedale S. Raffaele di Roma), e messo agli arresti domiciliari il 9 febbraio dello scorso anno per falso e truffa ai danni delle Asl.
La situazione non migliora, anzi se possibile peggiora, quando si analizzano i quotidiani finanziari. Il Sole 24 Ore, come è noto, è appannaggio dell’universo Confindustria, quindi diretta espressione dei desiderata dei principali gruppi industriali del Paese. Nel suo Cda siedono, fra gli altri, Giancarlo Cerutti, consigliere di amministrazione di Saras; Luigi Abete, presidente di Bnl (gruppo Paribas), fratello di Giancarlo Abete (presidente della Figc) e consigliere anche della Tod’s di Diego Della Valle; e Antonio Favrin, collega di Cda, in Safilo Group, di Ennio Doris, che siede in Mediolanum della famiglia Berlusconi e in Mediobanca.
A proposito dei legami fra industria, editoria e sport, è interessante notare come quattro delle principali squadre di calcio italiane appartengono a gruppi industriali che possiedono, o amministrano più o meno direttamente, almeno un quotidiano generalista: la Juventus degli Agnelli (che influenzano la Stampa e il Corriere), il Milan di Berlusconi (Il Giornale), la Fiorentina dei fratelli Della Valle (il Corriere), e infine l’Inter di Massimo Moratti (il Corriere e La Repubblica).
Tap, il Governo vuole "risarcire" i cittadini di Medelugno, ma il sindaco rifiuta la vantaggiosa offerta.
Le compensazioni a fronte dell’approdo del gasdotto in arrivo in Puglia dall’Azerbaijan, accendono lo scontro tra il premier e il primo cittadino del paese dove approderà l'opera. "L'ho invitato a confrontarsi, ha detto no. Lo ritengo uno schiaffo non al premier, ma alla comunità locale". Potì al Fatto.it: "Gli ho detto che se fossero stati fondi statali ne avremmo parlato. Mi ha confermato che sono della società. Non possiamo accettarli: sono soldi di chi ci sta distruggendo. Si sta comportando da avvocato d'affari"
Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, durante la sua visita di domeinca a Lecce, ha lanciato il suo “ballon d’essai” su Tap: “Un pacchetto da 30 milioni di euro per la comunità locale”, le compensazioni a fronte dell’approdo del gasdotto in arrivo in Puglia dall’Azerbaijan e della sua entrata in esercizio, dal 2020 fino ai prossimi cinquant’anni. Lo ha fatto puntando il dito contro Marco Potì, il sindaco di Melendugno, comune salentino sul cui territorio è in costruzione l’opera: “L’ho invitato a confrontarsi – ha detto il premier – perché lui ha una grande responsabilità, è il rappresentante di una comunità locale, ma ha declinato il mio invito. Lo ritengo uno schiaffo non al premier, ma alla comunità locale”.
Tirato per la giacchetta, Potì replica duramente: “Quando il presidente mi ha chiamato, qualche settimana fa, per prospettarmi queste ingenti somme, io gli ho risposto che sarei andato a parlare con lui se fossero state risorse statali – spiega a Ilfattoquotidiano.it – Mi ha confermato che provengono da Tap. Gli ho garbatamente detto che non ci pare giusto accettare soldi da chi sta distruggendo il nostro territorio. Lui si sta comportando come un avvocato d’affari, cosa che un sindaco non può fare”.
Conte era a Lecce per la firma di un accordo di ricerca tra Eni e Cnr e ha incontrato anche i gilet arancioni, gli olivicoltori che protestano per avere più attenzione nella lotta al disseccamento degli ulivi. Ha promesso un incremento della dotazione finanziaria fino a 300 milioni di euro entro il 2021, fondi da destinare a risarcimenti, ripristino della produttività, ma anche ad un piano specifico per la “rigenerazione” del territorio.
Inevitabile toccare il tasto Tap, anche perché, in autunno, lo stesso Conte aveva annunciato che si sarebbe recato nel Salento per spiegare il perché della scelta di andare avanti con l’opera, nonostante le promesse di stopparla fatte dal M5s in campagna elettorale. Un’attesa vana per la popolazione locale, non necessaria, a detta del premier: “Io – ha rimarcato – ho già spiegato le ragioni della scelta, addirittura l’ho fatto in una lettera aperta alla comunità di Melendugno e a quelle limitrofe. Ho iniziato a studiare il tema, ho invitato il sindaco e gli ho detto di portare i suoi esperti. Sono venuti tecnici, avvocati, ingegneri del Comune. Io personalmente avevo promesso una cosa: rivedremo tutte le procedure e, se c’è possibilità di annullare Tap, lo faremo. Siamo giunti alla conclusione che non è possibile tornare indietro. Con la comunità di Melendugno io ci ho messo la faccia e sono stato chiaro. Ora sto lavorando: credo che non è che si debba ‘compensare’, non è questa la logica perché chi pensa di aver subito una ferita la manterrà sempre, ma io ho l’obbligo di pensare a misure di rilancio di quella comunità. E stanno arrivando”
Non ha specificato chi metterà i soldi e a che cosa sarebbero destinati, però ha detto cosa farà: “Senza l’interlocuzione del sindaco, diffonderò le misure di rilancio. Se lui ha deciso di abdicare al suo ruolo pubblico, lo faccia e se ne assuma la responsabilità. Intanto, noi presenteremo le misure per il territorio per un totale di 30 milioni di euro”. Tanti soldi, per un comune che conta meno di 10mila abitanti. E che, però, con la multinazionale del gas non vuole convivere. Un caso politico emblematico, Melendugno, almeno per il M5s: centro dalla lunga storia socialista, alle scorse politiche ha votato in massa per i pentastellati, consegnando il 65 per cento delle preferenze a Barbara Lezzi, oggi ministra per il Sud.
Le elezioni europee di maggio daranno la misura del consenso che nel frattempo il Movimento ha perduto, almeno lì, dopo un dietrofront su Tap che non si riesce a digerire. E che rischia di diventare ancora più indigesto ora, dopo l’annuncio di Conte: “Il suo invito – racconta il sindaco Potì, al rientro dalla capitale dove ha partecipato alla manifestazione di sabato contro le grandi opere – mi è arrivato agli inizi di marzo, con una telefonata da Palazzo Chigi. Ho personalmente parlato con lui e ho dato la mia disponibilità a recarmi a Roma solo se le somme prospettate fossero state pubbliche. Lui mi ha chiarito che lo Stato non può impegnare quelle cifre e che i soldi sono di Tap. Qualche giorno dopo, gli ho scritto una lettera (clicca sull’immagine per la risposta integrale, nda) per argomentare meglio il fatto che per me è una scelta di coerenza non accettare compensazioni”.
Poi la stoccata: “Lui mi ha pregato di tenere la notizia riservata. Oggi scopro che ne parla alla prima occasione in visita a Lecce, mettendola sul piano di uno sgarbo istituzionale. Io sono stato corretto con lui, non mi pare di poter dire lo stesso. Quando, la scorsa estate, sono andato a Roma, mi disse che se ci fossero state irregolarità sulle procedure avrebbero fermato il gasdotto. Ricordo a Conte che al momento sono ancora in corso più inchieste della magistratura. Noi ci aspettiamo che lui faccia l’avvocato degli italiani e non delle multinazionali”.
A contestare le parole del premier c’è anche il Movimento noTap, che si rivolge direttamente a lui: “Lei non ha mai avuto il coraggio di parlare ai cittadini salentini, non si è mai degnato di mettere piede in una terra condannata anche da lei. Sono mesi e mesi che chiediamo i documenti ufficiali su questa impossibilità a tornare indietro e nessuno ci ha mai mostrato nulla, perché non esistono. Il Salento non è terra di conquista. Lei, oggi, con quei 30 milioni ha dimostrato che per questo governo la vita delle persone è quantificabile con delle briciole economiche. Si vergogni di questa sua sfacciataggine”.
Palazzo Chigi non ha al momento chiarito se quelle somme siano altra cosa rispetto ai 55 milioni di euro di investimenti aggiuntivi prospettati da Tap e Snam, nel novembre 2017 (governo Gentiloni), per tutto il Salento. Quella cifra lievitò nel giro di pochissimo tempo: due settimane prima, non superavano i 15 milioni di euro. Erano quelli i giorni in cui si registrava una profonda spaccatura tra i sindaci leccesi, una parte dei quali (37 su 97) si disse favorevole a dismettere la linea intransigente e a trattare. Le due società alzarono la posta: progetti per tirocini formativi, venti nuovi distributori di metano, un centro di ricerca sulla decarbonizzazione, efficientamento energetico per alcune scuole, una pista ciclabile e così via. Poi, di soldi non si è più parlato, almeno fino ad oggi.
Altro capolavoro del M5S: Con lo sblocco dei cantieri, pronti 40 mila assunzioni per ogni Comune.
(M5S): «Per far ripartire i cantieri, facciamo ripartire i Comuni: 40mila assunzioni»
“C’è un importante anello che collega la crescita di questo Paese allo sblocco dei cantieri che passa dal coinvolgimento e dalla collaborazione con le Amministrazioni locali. Anche per questo dobbiamo lavorare per rafforzare i Comuni e dargli l’opportunità di svolgere a pieno le loro funzioni. Questo lo faremo andando a colmare le carenze di personale ed in particolare di quello tecnico”.
Così il viceministro del Ministero dell’economia e delle finanze Laura Castelli in un post sul Blog delle Stelle.
“In Italia” ha spiegato “ci sono sia Comuni che sono sovradimensionati che Comuni sotto dimensionati. Superando il sistema del turn over è possibile avviare un percorso virtuoso di riequilibrio”.
“Daremo la possibilità ai Comuni di integrare il proprio contingente riferendolo alle entrate dell’Ente,” ha fatto sapere Castelli “quindi alla propria capacità fiscale ed ai trasferimenti. Questo significa aprire una riflessione seria sull’efficacia della riscossione locale e sulla necessità sia della sussidiarietà orizzontale che verticale. Dai qui una nuova stagione di analisi dei fabbisogni standard”.
“Un sano federalismo non può non tenere in considerazione la corretta solidarietà tra chi ha maggiore capacità fiscale rispetto a chi ne ha minore.
Dal superamento del meccanismo del turn over deriveranno 40 mila assunzioni in più per i Comuni senza maggiori oneri sulla finanza pubblica in quanto pienamente sostenibili in termini di bilancio. Non solo. Viene scritta una sola regole semplice e diretta che deve semplificare l’attuale quadro che si presenta complesso ed oscuro. In questo modo lavoriamo allo sblocco dei micro-cantieri, che portano PIL e benessere a livello locale,” ha concluso.
venerdì 22 marzo 2019
Adesso è ufficiale: L'UE ha affossato le nostre banche, lo dice una sentenza. Aveva ragione il M5S
La Commissione europea ha fatto pagare un conto salatissimo ai cosiddetti truffati dalle banche, impedendo l’utilizzo del Fondo con cui si sarebbero potuti salvare i quattro istituti di credito poi finiti in risoluzione, che aprirono la crisi arrivata fino al dissolvimento delle Popolari venete. Ad affermare quello che in Italia è stato sin dal primo momento sotto gli occhi di tutti, seppure nel silenzio di chi – tra poteri politici dell’epoca, finanziari e grandi giornali – non disse quasi niente per non contrariare Bruxelles, adesso è ufficialmente il Tribunale Ue, che ha accolto il ricorso presentato su Banca Tercas, affermando che utilizzare il Fondo di garanzia interbancario non avrebbe configurato affatto un aiuto di Stato.
Insomma, potevamo facilmente scongiurare il fallimento di quattro banche – la Cassa di Risparmio di Chieti, Banca Etruria, Banca delle Marche e la Cari Ferrara – e la perdita secca per gli obbligazionisti e gli investitori, se non fosse stato per lo stesso atteggiamento negativo con cui la Commissione e in particolare il Commissario Margrethe Vestager ancora oggi frenano il rimborso fino a un miliardo e mezzo per i malcapitati travolti dalla caduta della Popolare di Vicenza e Veneto Banca.
Un fatto gravissimo, come ha spiegato il parlamentare dei Cinque Stelle Gianluigi Paragone, accreditato come possibile presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle tragiche crisi bancarie degli scorsi anni. Sorprendentemente duro – ma solo ora che c’è la sentenza – anche il presidente dell’Abi, Antonio Patuelli, secondo cui alla luce della decisione del tribunale Ue il Commissario Vestager “farebbe bene a dimettersi”. Non c’è dubbio, d’altra parte, che l’interpretazione della Commissione europea sul Fidt (il Fondo Interbancario di tutela dei depositi) ha reso le nostre crisi bancarie più costose per i risparmiatori, gli investitori e le banche che sono subentrate a protezione, spendendo molto di più. Secondo Patuelli la sentenza del Tribunale Ue è un segno di vitalità e indipendenza delle istituzioni europee, anche se il giudizio arrivato adesso che sono scappati i buoi serve poco.
Severo anche il presidente della Commissione per gli Affari economici e monetari del Parlamento europeo Roberto Gualtieri (Pd). L’accoglimento del ricorso italiano – ha spiegato – chiarisce che non ci fu alcun aiuto di Stato e che la Commissione europea ha avuto torto in questi anni a impedire le misure preventive da parte dei Fondi di Garanzia, considerandole aiuti di Stato in modo improprio. Per Gualtieri si tratta quindi di una sentenza storica, che dà ragione a quanto sostenuto anche dal Parlamento europeo.
2 miliardi di sprechi da quando è Presidente dell'UE. Tajani costa un botto ai cittadini. Ma nessuno lo dice
Da una parte le politiche di austerity che obbligano spesso e volentieri i Paesi membri a tirare la cinghia magari su servizi sanitari e sociali per rientrare nei parametri europei; dall’altra sprechi, costi esorbitanti e comodità tanto di lusso quanto decisamente evitabili. Benvenuti nel fantastico mondo a due facce del Parlamento europeo. Secondo quanto si legge nel Progetto di relazione “sullo stato di previsione delle entrate e delle spese del Parlamento europeo per l’esercizio 2020”, l’anno prossimo l’istituzione dell’Ue ci costerà più di due miliardi.
Una cifra monstre, in costante crescita rispetto agli anni passati, come ammesso dallo stesso Europarlamento. Ciononostante il segretario generale Klaus Welle “ha proposto un importo pari a 2.068.530.000 euro per il progetto preliminare di stato di previsione del Parlamento per il 2020”. Un importo, si legge ancora nella relazione, che “rappresenta un aumento complessivo del 3,58% rispetto al bilancio 2019”. Ed è curioso, considerando che ovviamente parliamo di un anno – il 2020 – in cui avremo altri rappresentanti comunitari. Insomma, una bella, comoda e dispendiosa eredità. Ma c’è di più. Secondo quanto ricostruito dall’europarlamentare M5S Piernicola Pedicini, nel 2014, anno d’inizio della legislatura, il Parlamento europeo costava 1,737 miliardi: in appena 5 anni, dunque, la spesa è cresciuta di oltre 300 milioni. Caso strano, considerando che, come ammesso sempre nella stessa relazione, se la Brexit dovesse trovare realizzazione, nel 2020 “vi saranno 46 deputati in meno”.
La domanda nasce spontanea: come mai la crescita esponenziale dei costi? Presto detto. Nel documento si precisa che “quasi due terzi del bilancio sono costituiti da spese indicizzate, che riguardano principalmente le retribuzioni, le pensioni, le spese mediche e le indennità dei deputati (21%) e del personale (35%) in servizio e in pensione, nonché gli edifici (13%)”. A proposito di edifici: la doppia sede di Strasburgo costa ai contribuenti quasi 200 milioni all’anno, che equivale di fatto al 10% dell’intero bilancio del Parlamento.
Ma non è tutto. C’è la “comunicazione con i cittadini”, talmente fondamentale che si prevede l’inaugurazione dei centri “Europa Experience”, cioè “spazi espositivi”. In totale saranno cinque che dovrebbero costare, tra realizzazione e allestimento, intorno ai 10 milioni di euro. C’è poi la politica immobiliare. Ed ecco che nel 2020 si prevede “la consegna e l’occupazione dell’intera ala est del nuovo edificio Konrad Adenauer” e subito dopo cominceranno “i lavori nella nuova ala ovest”. E, manco a dirlo, ci saranno “considerevoli operazioni di trasloco”, senza dimenticare “l’arredo iniziale e la sorveglianza di sicurezza del cantiere”.
E poi, ancora, ci sono le spese per la sicurezza dei vari edifici sensibili e tutti i costi vari ed eventuali per consulenze, attività ausiliare e servizi. Ma attenzione: è lo stesso segretario che sottolinea come alcune spese siano decisamente superflue a causa del fatto, ad esempio, “la commissione per i bilanci svolge gli stessi compiti due volte, in primavera e in autunno, il che comporta un maggior numero di riunioni, la produzione di documenti e spese connesse (traduzioni, interpretazione, ecc.)”. Una ripetizione inutile che richiederebbe una “gestione razionale”. Che, a quanto pare, al momento pare proprio non esserci. La partita, però, ancora non è chiusa. Sulla proposta elaborata da Welle dovrà pronunciarsi anche l’Europarlamento presieduto da Antonio Tajani. Cosa voteranno i falchi europei che blaterano d’austerity? La risposta, ahinoi, già possiamo immaginarla.
Capolavoro Conte: così il Premier adesso pretende 65 miliardi di risarcimento per le banche italiane fallite a causa dell'UE
“Bisogna procedere con cautela. E’ un precedente importante: non è da escludere un appello della Commissione ma dobbiamo trarne tutte le conseguenze politiche e giuridiche anche ad esempio sul piano risarcitorio. Mi sembra cosa buona e giusta”. E’ quanto ha detto il premier, Giuseppe Conte, annunciando l’avvio di un’azione risarcitoria verso l’Ue dopo la sentenza con cui il Tribunale Ue ha annullato la decisione di vietare l’uso dei fondi di garanzia di depositi per i salvataggi bancari.
La linea ufficiale dell’Italia, sulla stessa sentenza con cui la giustizia europea ha bocciato la decisione di Bruxelles di impedire al nostro Paese l’utilizzo del Fondo Interbancario a Tutela dei Depositi (Fitd) per il salvataggio di Banca Tercas, è aspettare i 57 giorni che restano alla Commissione per fare ricorso. Nel frattempo sono già partite le riunioni al Ministero del Tesoro per approntare le prossime mosse, che potrebbero portate il nostro Governo a chiedere alla Commissione Europea un maxi risarcimento che potrebbe sfiorare i 65 miliardi di euro.
Il motivo? Si chiama burden sharing o bail in, due principi comunitari che voglioni che siano gli azionisti e gli obbligazionisti a farsi carico del salvataggio delle banche in crisi, attraverso la riduzione del valoro dei titoli in proporio possesso o la loro conversione in capitale. Esattamente quanto è accaduto ai possessori dei titoli di Banca Etruria, CariChieti, Banca Marche, Cariferrara, Veneto Banca e Banca Popolare di Vicenza. E per aspetti simili anche ai possessori di titoli del Monte dei Paschi di Siena.
Visto che la sentenza della Corte di Giustizia ha sostanzialmente giudicato illegittimo il divieto impostoci dalla Commissione Europea di usare il Fitd per salvare queste banche, ora i tecnici del Governo, con l’ausilio della Banca d’Italia, d’intesa con l’Associazione Bancaria Italiana (Abi) e con gli avvocati che si sono occupati della questione, stanno elaborando una strategia. Il primo problema, che sarebbe stato già in parte risolto, è quello del soggetto legittimato a chiedere il risarcimento, che è stato identificato nello Stato italiano, mentre non sembrerebbe sussitere in capo alla Banca d’Italia. L’Abi, invece, per bocca del suo presidente Antonio Patuelli, ha fatto presente che sta studiando “ogni possibilità giuridica, per chiedere e ottenere risarcimento dalla Commissione Europea”.
L’altro nodo da sciogliere è relativo alla quantificazione del risarcimento da chiedere. Infatti se si usa come parametro il valore dei titoli cancellati (azioni e obbligazioni) la cifra è di circa 24 miliardi di euro. Mentre i soldi impegnati dallo Stato per intervenire sulle banche ammontano a più di 40 miliardi. Cifre erogate con una molteplicità di strumenti la cui ricognizione completa richiederà diverse settimane visto che tra fondi, garanzie rilasciate agli istituti di credito, titoli sottoscritti dal Tesoro e contributi rilasciati a favore delle banche che si sono accollate gli istituti in difficoltà, è difficile districarsi. Senza contare che in alcuni casi i soldi spesi potrebbero tornare indietro. Quindi sarà necessario prima capire quanto è stato effettivamente sborsato e quanta parte di questi soldi si sarebbero potuti risparmiare con l’utilizzo del Fondo di Garanzia. La partita è appena iniziata e le elezioni Europee sono alle porte.
Il M5S vuole cambiare la legge elettorale: ecco la "taglia ammucchiate"
L'obiettivo è quello di eliminare le coalizioni di liste civiche nei comuni e nelle Regioni: la proposta di legge è stata presentata deputato pugliese Davide Galantino sulla piattaforma Rousseau.“
Basta accozzaglie nelle liste". Il Movimento 5 Stelle è al lavoro su una proposta di legge 'anti-ammucchiate' che ha come obiettivo quello di eliminare le coalizioni di liste civiche nei comuni appartenenti alle Regioni a Statuto ordinario. Firmatario della proposta è il deputato pugliese Davide Galantino, che ha presentato la sua iniziativa sulla piattaforma Rousseau, dove il testo sarà sottoposto al vaglio degli iscritti prima di essere depositato in Parlamento.
"Questa legge - spiega Galantino all'Adnkronos - serve per dare democraticamente a tutti la possibilità di poter partecipare alle amministrative: una lista per ogni candidato sindaco, come avviene nei comuni sotto i 15mila abitanti". D'altronde, evidenzia il parlamentare originario di Bisceglie, "è stata la presidente della Commissione Antimafia Bindi nel 2016 a lanciare l'allarme su una possibile infiltrazione della mafia nelle liste civiche" e sul rischio di un "inquinamento" del voto popolare.
Per Galantino "l'attuale sistema elettorale altera il consenso popolare e - prosegue - penso che la mia legge potrebbe avere un forte impatto sul territorio qualora dovesse essere approvata".
Il testo presentato su Rousseau introduce "modifiche al Decreto Legislativo 267 del 18 agosto 2000 'Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali'" intervenendo sugli articoli 72 e 73.
"Spesso in una lista si trovano anche parenti, amici e amici degli amici... persone inserite con il solo scopo di blindare i voti della famiglia del candidato. Ho visto addirittura liste che su 24 candidati ne avevano 10-11 con zero voti: non si erano votati neanche loro. Allora qual è il senso della tua partecipazione alle amministrative?", rimarca il deputato M5S.
Alla domanda se questa proposta di legge non rischi in realtà di agevolare esclusivamente il Movimento 5 Stelle, che, presentandosi da solo alle elezioni, spesso 'soffre' a livello locale le coalizioni di civiche, Galantino risponde: "Non è così. Vengono agevolati tutti i cittadini che vogliono concorrere in modo democratico alle amministrative".
La proposta di legge pentastellata ha fatto storcere il naso a Fabio Fucci, ex sindaco di Pomezia ed ex esponente del M5S che alle ultime elezioni nel comune laziale si è presentato con una sua lista civica in competizione con il Movimento 5 Stelle: "Questa è una vera e propria limitazione della democrazia e della facoltà per chiunque di partecipare alla vita politica della propria città. Io la leggo così: il M5S ha talmente paura di perdere i posti di potere che ha acquisito che vuole evitare che i cittadini organizzati osino anche solo tentare di spodestarli", scrive su Fb Fucci, bocciando la proposta di legge grillina.
Critiche rispedite al mittente da Galantino, il quale non esclude che in futuro il M5S possa presentare una legge per bloccare le cosiddette 'ammucchiate' anche alle elezioni regionali: "Ce ne stiamo occupando, se ne parla. Ma non è stata ancora buttata giù una bozza. Ora - conclude - pensiamo a portare avanti questa battaglia, che potrebbe stravolgere la politica della maggior parte dei comuni italiani".
giovedì 21 marzo 2019
Così… non fan tutti. I Cinque Stelle cacciano le mele marce, nei partiti indagati e condannati restano ai loro posti
A leggere le intercettazioni che hanno portato all’arresto di Marcello De Vito si resta spiazzati. Vacilla la bandiera dell’onestà, senza ombra di dubbio il vessillo più riconoscibile dei Cinque stelle. Eppure, al contrario di chi dalle opposizioni stupidamente accusa i pentastellati di essere uguali a tutti, cioè a loro, e in questo lasciandosi andare a un’ammissione di colpa neanche troppo implicita, resta una differenza siderale e che, per dovere di cronaca, è doveroso riconoscere: Luigi Di Maio ha immediatamente espulso De Vito dal Movimento, specificando che il suo stesso comportamento offende quanto costruito in questi anni.
Le domande sorgono spontanee: Matteo Renzi ha mai fatto una cosa del genere? Matteo Salvini? Giorgia Meloni? Silvio Berlusconi? Avrà un simile comportamento Nicola Zingaretti? La risposta è nelle storie, passate e presenti, dei tanti indagati, imputati, condannati e pregiudicati che nei vari partiti hanno sfilato restando comodamente seduti ai loro posti (spesso di comando). L’elenco, come si può immaginare, è elefantiaco. Per comodità, dunque, ci fermeremo a chi siede negli scranni parlamentari in questa legislatura.
Cominciamo da chi ha sul groppone, suo malgrado, una condanna in via definitiva. Non si può non partire da Silvio Berlusconi che, pur non essendo parlamentare, tiene in mano le redini di Forza Italia, e da Umberto Bossi, attuale senatore e fondatore del Carroccio. Tra i condannati in via definitiva spicca pure il senatore forzista Paolo Romani, ex candidato di Berlusconi alla presidenza del Senato, sul cui groppone pesa una condanna definitiva a un anno e 4 mesi per peculato. Ma la lista, ovviamente, è molto più lunga. A Palazzo Madama siede anche il berlusconiano doc Salvatore Sciascia, condannato a 2 anni e mezzo per le tangenti alle Fiamme Gialle. A Montecitorio invece siedono Vittorio Sgarbi, condannato in via definitiva per truffa ai danni dello Stato (per tre anni avrebbe disertato il suo ufficio alla Soprintendenza di Venezia), e Antonio Minardo, condannato a otto mesi per abuso d’ufficio.
La lista di chi ha problemi con la giustizia, però, è decisamente lunga. Cominciamo dalla Lega. Per lo scandalo rimborsopoli in Piemonte sono fioccate condanne in primo grado per il capogruppo leghista a Montecitorio, Riccardo Molinari (11 mesi) e il membro della commissione Vigilanza Rai Paolo Tiramani (1 anno e 5 mesi). Per la stessa ragione è stata condannata anche la meloniana Augusta Montaruli (1 anno e 7 mesi). Se saltiamo dal Piemonte alla Liguria, ecco che troviamo per un altro scandalo rimborsopoli il sottosegretario Edoardo Rixi, per cui la procura ha chiesto una condanna a 3 anni e 4 mesi. Stessa sorte per il senatore ed ex presidente del consiglio regionale Francesco Bruzzone. La sentenza è attesa per fine maggio.
Per lo scandalo delle “spese pazze” alla Regione Lombardia va anche peggio: un anno e 8 mesi per Massimiliano Romeo, attuale capogruppo della Lega al Senato. Condannati anche i due ex consiglieri, oggi deputati, Jari Colla e Fabrizio Cecchetti. Nell’elenco c’è anche Cinzia Bonfrisco, accusata di corruzione e associazione a delinquere nell’inchiesta sul Consorzio Energia Veneto. Se restiamo nelle file leghista del Governo, non c’è solo Rixi ad avere guai con la giustizia. A proposito di sottosegretari, non si può non menzionare, Armando Siri, che ha patteggiato una pena per bancarotta fraudolenta; e Massimo Garavaglia, sottosegretario all’Economia, a giudizio per turbativa d’asta.
Le “spese pazze” coinvolgono anche il Pd. Il deputato laziale ed ex consigliere regionale Bruno Astorre (Pd) che risulta, almeno fino a gennaio 2018, imputato nell’inchiesta sui rimborsi e le spese di rappresentanza del gruppo dem in consiglio regionale, insieme all’attuale onorevole Claudio Mancini. Per inciso: Astorre è il nuovo segretario Pd nel Lazio. Ma d’altronde non sorprende considerando che indagato, questa volta per finanziamento illecito, è anche Nicola Zingaretti, per quanto raccontato in questi giorni da L’Espresso. Nell’elenco non poteva mancare Luciano D’Alfonso, imputato per truffa e indagato per falso ideologico.
A Napoli Piero De Luca figlio del governatore Vincenzo, risulterebbe essere ancora sotto processo per bancarotta, mentre in Puglia Lello Di Gioia è indagato per induzione indebita /(poche settimane fa di lui si è occupato la Giunta per le autorizzazioni per l’utilizzo delle intercettazioni). Ma se restiamo sulla sponda Pd, altri nomi di peso sono quello di Francesco Bonifazi, tesoriere del partito ai tempi di Matteo Renzi, indagato per finanziamenti illeciti e false fatture nella stessa inchiesta che arriva fino a Marcello De Vito; Luca Lotti, ex ministro dello Sport, per cui è stato chiesto il rinvio a giudizio per favoreggiamento nell’inchiesta Consip; e Piero Fassino, accusato di turbativa d’asta nell’affaire Salone del Libro.
E Foza Italia? Anche qui, ovviamente, l’elenco è decisamente lungo. Ad attendere la sentenza in appello c’è Ugo Cappellacci, ex governatore sardo eletto alla Camera, condannato in primo grado a 2 anni e 6 mesi per il crac di Sept Italia. Guai anche per un altro forzista: Antonio Angelucci, recordman di assenze al Senato nella scorsa legislatura e nell’attuale, è stato anche condannato in primo grado a un anno e 4 mesi per truffa e falso per i contributi pubblici ai suoi giornali, Libero e Il Riformista, e nel frattempo è imputato per truffa al sistema sanitario laziale (il pm ha chiesto una condanna a 15 anni) e indagato – notizia proprio di ieri – per istigazione alla corruzione.
Non poteva mancare, ancora, Luigi Cesaro. Finito in diverse inchieste per presunti rapporti con i Casalesi, l’ultima vicenda per cui risulta indagato (insieme peraltro al deputato Antonio Pentangelo) è l’affare “Ex Cirio” dal nome dell’area industriale dismessa a Castellamare di Stabia e interessata da un progetto di ristrutturazione che negli anni ha visto numerosi blocchi per mancanza di autorizzazioni e, stando alla Procura, altrettanti numerosi tentativi di far ripartire le opere di riconversione, cercando di procurarsi i permessi.
Nell’elenco di chi ha guai con la giustizia c’è anche qualche onorevole del partito di Giorgia Meloni, Fratelli d’Italia. Oltre alla già citata Montaruli, infatti, per motivi analoghi (spese pazze) ma in Umbria, risulterebbe ancora indagato il senatore Franco Zaffini. Per la rimborsopoli marchigiana, infine, la Cassazione un anno fa ha annullato il non luogo a procedere per 54 persone. Tra di loro ci sarebbe anche il deputato Francesco Acquaroli. Per tutti loro si dovrebbe ripartire dall’Appello.
E' fatta, il Governo approva il decreto che rimborsa i truffati dalle banche
Il Consiglio dei Ministri ha approvato salvo intese anche il decreto sulla Brexit, in cui sono state introdotte le norme sul Golden Power per il 5G e quelle per i risarcimenti ai risparmiatori truffati dalle banche. Inoltre la bozza esaminata a Palazzo Chigi prevede che le banche inglesi e le società di assicurazione che operano in Italia andranno incontro a pesanti limitazioni (dal divieto di concludere nuovi contratti, al continuare a prestare di servizi di investimento in favore dei risparmiatori, fino alla cessazione dell’attività), e per evitare ritorsioni sull’acquisto dei nostri titoli di Stato il Governo è corso ai ripari.
Infatti, nel caso in cui il Governo di Theresa May non dovesse trovare un accordo con Bruxelles, visto e considerato che le banche inglesi sono grandi acquirenti dei nostri titoli di debito pubblico, potrebbe accadere che gli Istituti di Credito del Regno Unito riducano la sottoscrizione di Bot, Cct, Btp e Ctz, che servono a finanziare il nostro Stato. Per ovviare a tale inconveniente il decreto Brexit prevede che “possono essere ammessi alle negoziazioni per conto proprio sulle sedi di negoziazione all’ingrosso di titoli di Stato, in qualità di membri o partecipanti” l’equivalente della nostra Cassa Depositi e Prestiti dei seguenti 17 paesi europei: Belgio, Danimarca, Germania, Estonia, Irlanda, Grecia, Spagna, Francia, Lettonia, Lituania, Ungheria, Paesi Bassi, Austria, Polonia, Portogallo, Slovenia, Finlandia e Svezia. Un modo per aumentare la platea dei potenziali sottoscrittori di titoli di Stato italiani.
Frongia si autosospende e consegna le deleghe alla sindaca Raggi. “Per rispetto del M5S, degli attivisti e di chi ci sostiene ogni giorno”
“Come ho già dichiarato stamani ho piena fiducia nella magistratura e, come sottolineato anche dai miei legali, confidiamo in una rapida archiviazione del caso. Tuttavia, per una questione di opportunità politica, nel rispetto del M5S, degli attivisti e di chi ci sostiene ogni giorno, ma soprattutto nel rispetto degli stessi principi che mi spinsero molti anni fa ad aderire al Movimento, una forza politica trasparente e in cui credo fermamente, ho deciso di autosospendermi dal M5S e di riconsegnare le deleghe attribuitemi dal sindaco Virginia Raggi in qualità di assessore allo Sport di Roma Capitale”. E’ quanto scrive sulla sua pagina Facebook l’assessore capitolino allo Sport, Daniele Frongia, in merito al suo coinvolgimento nell’inchiesta sullo stadio della Roma. “Ricordo nuovamente – aggiunge Frongia – che il mio caso trarrebbe origine dall’interrogatorio di Parnasi del 20 settembre 2018, già uscito all’epoca sui giornali, in cui lo stesso sottolineava più volte di non aver mai chiesto né ottenuto favori dal sottoscritto. Comprendo, per così dire, la necessità di alcuni giornali di scagliarsi ora, ferocemente, contro la giunta capitolina. Ma il mio caso non ha nulla a che fare con ciò che è emerso ieri. I principi etici del M5S – conclude – sono alla base della mia azione politica”.
Caso De Vito, Travaglio: "Il M5S butta fuori i corrotti, gli altri attaccano la magistratura"
Con l’espulsione di Marcello De Vito, in seguito all’arresto di ieri, Luigi Di Maio ha marcato la diversità del M5S da tutti i partiti “che gridano al complotto, alla giustizia a orologeria, alle manette elettorali per rifugiarsi nella comoda scusa della presunzione di innocenza fino alla Cassazione”.
Lo scrive Marco Travaglio nel suo editoriale di oggi.
Secondo il direttore del Fatto Quotidiano De Vito non era una “mela marcia” dall’inizio, ma probabilmente – se le accuse saranno confermate – lo è diventato “strada facendo”.
A questo punto – osserva Travaglio – resta da capire quale sarà il destino dell’amministrazione pentastellata di Roma: “se ora emergesse che De Vito aveva complici fra gli assessori, la sindaca dovrebbe trarne le inevitabili conseguenze”, nonostante finora sia sempre uscita pulita dall’inchiesta.
Il giornalista fa notare anche che il ruolo di De Vito, ovvero presidente dell’Assemblea Capitolina, ha scarso potere decisionale: “Evidentemente i palazzinari – veri, eterni e intoccabili re di Roma – non riuscivano a penetrare nella giunta. E, in mancanza di meglio, hanno aggirato l’ostacolo agganciando l’anello più debole della catena, l’unico big M5S risultato finora permeabile alla tentazione,” spiega Travaglio, secondo il quale un politico che “parla al telefono con faccendieri di soldi da spartire pochi mesi dopo l’arresto di Lanzalone e tre mesi prima delle elezioni europee” non può ancora essere considerato “corrotto”, ma “fesso” sì.
Anche perché – sottolinea – “Tutti sanno che ogni scandalo targato M5S fa mille volte più notizia di quelli targati Pd (Zingaretti indagato per finanziamento illecito, ma lui si dice “tranquillo” e morta lì), FI e Lega”.
Leggi l’editoriale di Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano…
martedì 19 marzo 2019
Anche oggi arrestato uno del PD! le accuse a suo carico? associazione a delinquere finalizzata alla riduzione in schiavitù e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina
Pasquale Infante, capogruppo Pd al Comune di Eboli, è stato arrestato associazione a delinquere finalizzata alla riduzione in schiavitù e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina nell’ambito di un’inchiesta sul caporalato
Infante, secondo la Procura Antimafia di Salerno che conduce le indagini, guidava insieme al marocchino Hassan Amezgha, un’organizzazione “specializzata” nel traffico umano di braccianti agricoli dall’Africa alla Piana del Sele. L’esponente del Pd campano, si legge su Salernotoday, in quanto commercialista avrebbe avuto il compito di mettere in ordine le carte riguardanti lo sfruttamento dei migranti, opera nella quale sarebbe stata anche la sorella Maria Infante che lavora con lui nel suo studio di consulenza. Il gip ha concesso gli arresti domiciliari al piddino campano perché riteneva non vi fossero i presupposti per trattenerlo in carcere. Ora, spetterà a Infante difendersi al meglio da queste accuse onde evitare di ‘infangare’ il nuovo corso del Pd iniziato con la vittoria di Nicola Zingaretti a segretario del partito.
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