martedì 23 aprile 2019

"Finalmente un sindaco che batte i pugni sul tavolo e che ammette le condizioni di Roma" il giornalista Franco bechis elogia Virginia Raggi!



Raggi pizzicata dalle microspie? Parli così anche in pubblico. Quello sfogo sulla pulizia della città meglio della difesa “politica” di quel che invece è indifendibile

(di Franco Bechis – iltempo.it) – Chiedo subito scusa ai lettori de Il Tempo per il titolo un po’ forte (“I romani alla finestra vedono merda”) in prima pagina. Non mi piacciono le parolacce e vorrei non usarle, ma quel virgolettato non è mio. E’ stato usato in un colloquio registrato a sua insaputa dalla sindaca di Roma, Virginia Raggi. Non ho trovato il modo di tradurlo e renderlo più digeribile, anche perché la prima cittadina della capitale ha reso in modo efficacissimo l’impressione che i suoi cittadini hanno della pulizia in gran parte di Roma. In qualche modo quella frase un po’ rude ci dice forse per la prima volta in modo chiaro che la Raggi non vive sulla luna, ma è ben cosciente delle condizioni pessime in cui versa la città che amministra. Quel colloquio registrato è stato pubblicato ieri- insieme a un altro passaggio- da L’Espresso ed è entrato in fretta e furia nella polemica politica quotidiana come atto di accusa alla sindaca. Avendo ascoltato l’uno e l’altro spezzone di audio personalmente ho avuto la sensazione opposta. La registrazione è stata fatta in segreto dalla persona con cui la Raggi stava parlando: l’ex amministratore delegato di Ama, Lorenzo Bagnacani. C’erano problemi di bilancio alla società che dovrebbe tenere pulita la città e raccogliere i rifiuti e probabilmente il manager aveva chiesto un aumento della relativa tariffa pagata dai romani. Riporto qui esattamente come è stata la risposta data dalla sindaca al suo amministratore: “Io oggi non posso aumentare la Tari. Perché se i romani vedono…, grazie anche ai sindacati e agli operai che non hanno voglia di fare, si affacciano… e vedono la merda in città, in alcune zone purtroppo è così, in altre è pulito… ma quando gli dico la città è sporca, però ti aumento la Tari, mettono la città a ferro e fuoco. Altro che gilet gialli!”. Il discorso per quanto pronunciato in privato (in pubblico non ho mai sentito tanta chiarezza dalla sindaca) non fa una grinza: i romani già oggi pagano probabilmente la tariffa per lo smaltimento dei rifiuti più alta di Italia e in cambio ricevono uno dei servizi più scadenti della penisola.

Un altro spezzone di audio di quel colloquio- avvenuto però alla presenza di altri personaggi del Comune di Roma fra cui il capo dell’avvocatura cittadina- riguardava un contrasto fra la Raggi e il suo manager sulle poste di bilancio dell’Ama. Viene interpretato come indebita pressione della sindaca sull’amministratore, ma bisogna tenere presente che il comune di Roma è proprietario al 100% della società di raccolta rifiuti e che ha il diritto di cambiare il suo consiglio di amministrazione se non gode più della fiducia dell’azionista e anche di contestare il bilancio della municipalizzata, cosa che avrebbe a pieno diritto fatto il giorno dell’assemblea probabilmente bocciandolo.

Alla Raggi, di cui ha chiesto le dimissioni Matteo Salvini in una giornata assai complicata fra Lega e M5s dopo l’avviso di garanzia per corruzione inviato al sottosegretario leghista ai Trasporti Armando Siri, semmai si può eccepire la tardività di quella presa di coscienza sulle condizioni di Roma. E pure il fatto di non avere avviato per tempo una operazione verità sulla situazione dell’Ama e della raccolta rifiuti. Siamo ormai a quasi tre anni di governo della città, e chi la guida deve prendersi le sue responsabilità senza più fare riferimento a chi è venuto prima e senza rifugiarsi nella solita cantilena su Mafia capitale. La Raggi è stata votata dai romani proprio per staccare da quel passato, ma anche per avere amministrata decentemente la propria città operando scelte che poi non vengano cambiate ogni tre minuti.

Ultim'ora - Salva Roma, è guerra all'interno della maggioranza! Ecco cosa sta succedendo



Nuovo scontro nel Governo sul salva-Roma. La Lega annuncia il ritiro della norma, ma i ministri M5S smentiscono

Giallo sull’attesissimo consiglio dei ministri di stasera, in cui all’interno del decreto Crescita si sarebbe dovuto discutere anche del salva-Roma, la norma pro-Capitale tanto osteggiata dalla Lega. Dopo vari rinvii, infatti, si tiene il Cdm all’assenza di Luigi Di Maio, impegnato in alcune interviste televisive, e alla presenza invece di tutti i ministri leghisti, a cominciare da Matteo Salvini, ma anche Giancarlo Giorgetti. Il Carroccio non diserta il consiglio dei ministri, nelle ore in cui è scontro aperto con il Movimento 5 stelle sul caso di Armando Siri. Per i grillini, invece, c’è solo la ministra del Sud, Barbara Lezzi, e quello dei Beni culturali, Alberto Bonisoli.

Lo scontro sarebbe più acceso di quanto si pensi. Prima del consiglio dei ministri, infatti, Salvini ha annunciato: “Il Salva Roma è fuori dal dl crescita”. Il provvedimento sarà ad hoc per tutti i comuni. “Quando si parla di crescita è importante esserci”. Lo stralcio del “salva Roma” dal decreto “l’ho concordato con chi c’era”. Lo afferma il vicepremier leghista facendo riferimento alle diverse assenze registrate tra i membri del governo M5S in cdm. Ma i grillini smentiscono Salvini. “Non è ancora stato discusso il dl Crescita – riferiscono fonti M5S – dunque non si è potuto stralciare nulla, meno che meno il salva-Capitale”.


Secondo fonti governative, l’inghippo starebbe nel fatto che all’ordine del giorno del Cdm non ci sarebbe il decreto crescita, in queste ore ennesimo oggetto di conflitto tra M5s e Lega, ma sarà comunque sul tavolo della riunione dell’esecutivo e verrà esaminato a margine del Consiglio,comunque, perché già approvato il 4 aprile scorso con la formula “salvo intese“. Solo per questo motivo, assicurano dalla maggioranza, non figura all’ordine del giorno.

Pazzesco, la Lega contro la riforma dei processi del M5S che accorcia i tempi delle sentenze. Chi stanno proteggendo?



Come se non bastassero i riflettori dei nuovi casi Siri e Raggi, tra Lega e Cinque Stelle si apre un nuovo fronte. Quello della giustizia. Mentre divampa la polemica tra i due azionisti della maggioranza per l’indagine a carico del sottosegretario ai Trasporti della Lega, Armando Siri, e una registrazione che riguarda la sindaca di Roma, Virginia Raggi, con richieste incrociate di dimissioni, scoppia la grana della riforma del processo penale.

Contrasti resi plateali dalla decisione della Lega di disertare il vertice di maggioranza a Palazzo Chigi con il premier Giuseppe Conte sul testo messo a punto dal ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, dopo la chiusura dei tavoli aperti con avvocati e magistrati. “Perché i ministri della Lega non sono venuti al vertice non è una domanda da fare a me – taglia corto il Guardasigilli -. Io chiaramente vado avanti, porterò la riforma per il dimezzamento dei tempi del processo al prossimo Consiglio dei ministri utile”.

L’orizzonte temporale per la riforma, che riguarda anche il processo civile, sono “i prossimi dieci giorni”, conferma il ministro della Giustizia intervenendo al Congresso della Legacoop. Ma, assicura, è improprio parlare di “scontro”. Sulla giustizia, prosegue Bonafede, “non c’è stato sinora e non ci può essere nemmeno adesso perché i cittadini vogliono tempi brevi per il processo e questa risposta gliela dobbiamo dare”. Quanto alla possibilità che la riforma affondi se non si trova l’accordo con la Lega, Bonafede non vede questo rischio: “Si è sempre trovata la quadra sui provvedimenti per la giustizia al servizio dei cittadini. E la legge Spazzacorrotti, approvata a tempo di record, è la prova più evidente”.

Inutile negare, però, che il vertice disertato dai ministri della Lega sia solo l’ultimo segnale di una serie di attriti da tempo noti. “Sul processo penale più volte la Lega ha fatto riunioni con il ministro Bonafede: non si può parlare assolutamente di un accordo raggiunto” aveva detto non a caso solo qualche giorno fa, Giulia Bongiorno, a cui Salvini ha affidato il dossier giustizia, spiegando che la Lega considera l’accelerazione dei processi condicio sine qua non della riforma della prescrizione. E dunque no a smantellare “pezzi di processo” per fare presto, piuttosto introdurre “termini perentori” per le indagini preliminari.

Scogli non facili da superare. La temperatura rischia di salire anche sul ddl costituzionale per la separazione delle carriere all’esame della Commissione Giustizia della Camera. La Bongiorno sostiene la riforma, ma Bonafede ha dichiarato la propria contrarietà al provvedimento in linea con i Cinque Stelle a una proposta che “non è nel contratto di Governo”. Lo aveva già fatto nel suo primo incontro ieri con la nuova giunta dell’Anm: due ore di confronto molto cordiale in cui il ministro ha assicurato che, a differenza di ciò che accade per la riforma del processo penale, quella del processo civile marcia spedita.

Scanzi show: "Se il fututo è Salvini-Meloni siamo nella merda"



Di Andrea Scanzi per il Fatto Quotidiano

" Oggi questa rubrica riguarda voi: il lettore medio del Fatto, che forse ormai un po’ conosco, e il lettore tipo di questa pagina, che certo ormai conosco. Vi guardate in giro, in mezzo a tutto questo gran vortice di Siri e Arata, e non sapete più a cosa aggrapparvi. Probabilmente il Pd vi faceva già abbastanza schifo quando è nato. Figurarsi adesso. Così, provenienti quasi tutti da sinistra, vi siete guardati in giro. Di Pietro, Diliberto, l’astensione. Quindi i 5 Stelle, oppure la cosiddetta sinistra radicale. Nel 2013 il sistema se n’è fregato del vostro voto. Crimi & Lombardi si sono coperti di ridicolo, il Pd ha uccellato Prodi e incenerito Rodotà: non gliel’avete mai perdonato, non glielo perdonerete mai.

Il tempo passa. La più grande caricatura politica (con rispetto parlando) d’Italia stravince le Europee del 2014. Tutti, o quasi tutti, si accodano vilmente per celebrarlo. Tempi tremendi. Il 4 dicembre 2016 abbiamo rischiato che morisse tutto, ma ci è andata bene (e non dovremo mai smettere di dirci “bravi” da soli). Per le elezioni del marzo 2018, l’unica certezza era che tutto sarebbe stato meglio di Renzusconi. Ci è andata bene un’altra volta, ma non abbiamo fatto in tempo a esultare che ci siam trovati Salvini al Viminale e Fontana alla Famiglia. Oh cazzo. Non c’erano altre strade, perché il Pd iper-renziano si è chiamato fuori per godersi lo sfacelo e perché Mattarella non ci avrebbe mai fatto rivotare. Era l’unica strada percorribile, ma questo – a noi, che ancora abbiamo il gusto retrò per l’onestà intellettuale – non basta certo per dire che il Salvimaio sia il governo dei sogni: è un accrocchio Frankenstein che alterna trovate decenti a schifezze pure. I contraenti non hanno quasi nulla in comune, ma per mesi – insopportabili mesi – hanno fatto finta di andare d’accordo come amanti erotomani. La sinistra, quasi tutta, nel frattempo ha passato il tempo a santificare i Mimmo Lucano e abbaiare alla Luna (che è poi la stessa cosa). Il fascismo, il razzismo, stocazzo: Salvini non avrebbe neanche osato sognare avversari così ghiozzi. Un po’ vi conosco e so cosa provate: ogni volta che ascoltate Marianna Aprile vi prende sonno (non prima di esservi chiesti chi diavolo sia ‘sta “Marianna Aprile”). Ogni volta che sentite Massimo Giannini vi vien voglia di regalargli una copertura a caso. E ogni volta che vi imbattete nel bel capino implume di Alessandro De Angelis (chi?) pensate che la natura, proprio come insegnava il Leopardi, sa essere impietosa. Il vostro guaio è che non vi piace niente, né il governo né l’opposizione. E la sinistra, con i suoi tanti Tafazzi e le sue troppe Murgia, non potrà che ridursi a nicchia della nicchia (che è poi quel che spesso vuole). Siamo nel bel mezzo della tempesta perfetta. Gli ultimi sondaggi, a volerci credere, dicono Lega al 37% (!?!) e M5S al 22%, col Pd fermo al 18% dopo un “effetto Zingaretti” durato quanto un’erezione di una medusa impotente.

Questo significa solo una cosa: quando torneremo a votare, la destra vincerà da sola. Salvini, Meloni e Toti: il triumvirato del futuro. Da una parte abbiamo un governo che, al di là di una Spazzacorrotti, non può piacerci. Dall’altra c’è la certezza di un esecutivo futuro veramente inquietante, che – se ancora esiste la coerenza – spingerà quelli dell’Espresso a invadere una volta per tutte la Polonia.

Oggi il Salvimaio, domani il Salveloni: wow. Il presente non ci piace, ma il futuro ci piacerà ancora meno. Per questo attacchiamo il governo, con la speranza però ricondita che – prima della sua caduta – nasca un’alternativa minimamente decente. Siamo senza via d’uscita. Siamo nella merda. Buona fortuna."

Sul caso Siri i 5 Stelle vogliono le dimissioni: ecco le 4 domande che inchiodano la Lega e il suo sottosegretario. Per Salvini ora diventa difficile far finta di niente



Nel corso delle ultime ore il pressing del Movimento cinque stelle su Armando Siri si è fatto via via più asfissiante. Il discorso è semplice: all’interno del Governo non può restare chi è indagato per corruzione in un’inchiesta, per di più, condotta dall’Antimafia. Ed è per questo che, secondo fondi M5S, l’intento del Carroccio negli ultimi giorni sarebbe quello di confondere furbescamente le acque. “Le stanno provando tutte per distogliere l’attenzione sul tema principale: le dimissioni di Siri. Prima gli attacchi gratuiti alla Raggi, poi la foto di Salvini con il mitra e ancora la reintroduzione della leva obbligatoria. Una dopo l’altra per provare ad oscurare quella che per noi rimanere la notizia principale sulla quale non possiamo soprassedere: l’inchiesta per corruzione che vede il coinvolgimento del sottosegretario Siri”. È questo quello che fanno trapelare fonti del Movimento 5 Stelle. “Di mezzo ci sarebbero legami con la mafia. E questo governo non deve avere alcuna ombra, non può essere accostato lontanamente a fatti di corruzione e mafia. Siri faccia un passo di lato e chiarisca”, aggiungono le stesse fonti.

Insomma, il Movimento è tornata a fare il Movimento chiedendo compatto le dimissioni di Siri. E lo fa anche sul blog delle stelle. A nome dello stesso Movimento cinque stelle, infatti, è stato pubblicato un articolato e lungo post in cui si sottolinea che “in questi primi mesi di governo abbiamo fatto quello per cui i cittadini ci hanno votato: abbiamo avviato un cambiamento in Italia. Un cambiamento fatto di piccole cose, come i vitalizi aboliti, e di grandi cose, come la legge spazzacorrotti. Ma cambiamento non sono solo i gesti, i fatti, ma anche un approccio alla cosa pubblicadiverso da quello a cui ci ha abituato per decenni la politica che ci ha preceduto. Quell’atteggiamento che il MoVimento 5 Stelle ha assunto fin dalla sua nascita, ha mantenuto per 5 anni ai banchi dell’opposizione e ha portato al governo. Perché mai, altrimenti, avremmo dovuto alzare le barricate contro l’ex ministro Boschi? Perché mai avremmo dovuto indignarci di fronte al caso Consip? Perché mai avremmo dovuto chiedere la sospensione di un nostro assessore a Roma nelle stesse ore in cui circolava addirittura la richiesta di archiviazione da parte della Procura, com’è accaduto di recente? Lo abbiamo fatto perché i reati contestati e le situazioni di riferimento avevano un certo peso specifico”.

Da qui il principio pentastellato secondo cui la politica deve dare il buon esempio. “Nessuno può nascondersi dietro la presunzione di innocenza di fronte all’ipotesi di un reato di corruzione. Non può farlo, a maggior ragione, quando nella stessa inchiesta emergono legami con la mafia. Quando un politico viene accusato dalla magistratura di essere un corrotto, deve fare un passo indietro e chiarire. Si può difendere, è un suo diritto, ma deve farlo lontano dalla sua carica. È quel che è accaduto al sottosegretario Armando Siri. E quel che abbiamo chiesto, in virtù della nostra coerenza, è stato che si mettesse in panchina fino al chiarimento definitivo, che rinunciasse al suo incarico nel governo mantenendo comunque il ruolo di senatore”, continua il post che poi ricostruisce tutta la vicenda che ruota attorno al sottosegretario.

Da qui le domande poste dai Cinque stelle direttamente alla Lega:

1. Quali sono i reali rapporti tra Siri, la Lega e Paolo Arata (l’ex parlamentare di Forza Italia, adesso responsabile del programma della Lega per l’ambiente che, secondo l’accusa, sarebbe vicino a Vito Nicastri, imprenditore indicato dai magistrati come “finanziatore” della latitanza del boss Matteo Messina Denaro)?

2. Perché il sottosegretario Siri ha presentato più volte delle proposte, sempre bloccate e rispedite al mittente dal MoVimento 5 Stelle, per incentivare l’eolico (materie oggetto di interesse proprio di Paolo Arata)? Per quale fine?

3. Perchè Siri si è contraddetto, cambiando versione più volte (quando è uscita la notizia dell’indagine per corruzione ha detto: “Non mi sono mai occupato di eolico in vita mia“. Poi ha ammesso di aver presentato una proposta di modifica alla legge sugli incentivi: “Me l’ha chiesto una filiera di piccoli produttori”. Infine, al Corriere, ha dichiarato: “Arata mi ha fatto una testa così e gli ho detto ‘va bene, mandamelo’ ”)?

4. Il figlio di Arata è stato assunto da Giorgetti presso il Dipartimento programmazione economica. Giorgetti sapeva che era figlio di Arata e dei rapporti del padre con Nicastri?

“Il più grande capitale dei cittadini italiani è la reale volontà di cambiamento delle forze al governo. Dare una risposta a queste domande significa dire ai cittadini che in Italia le cose sono cambiate davvero. Il cambiamento non ammette sconti, o scorciatoie. Prima di tutto con se stessi, come il Movimento 5 Stelle ha sempre dimostrato. Andiamo avanti a lavorare, c’è tanto da fare, ma con serietà”, conclude il post.

giovedì 18 aprile 2019

Renzi querela il Ministro Trenta? La risposta è epocale: "Se è nostalgico del suo aereo mi dispiace...."



 “Che dirle, a volte ritornano. Se è nostalgico del suo aereo mi dispiace…”. Così la ministra della Difesa, Elisabetta Trenta, raggiunta telefonicamente dall’Adnkronos, commenta la querela annunciata nei suoi confronti da Matteo Renzi per la vicenda dell’aereo di Stato. Sono dieci le azioni civili di risarcimento danni di cui parla Renzi e “ne seguiranno altre” afferma l’ex premier.

“Ormai Renzi è un caso umano e comunque preferisco ricordarmelo da vivo. Altro non voglio dire perché lui lo fa apposta, spera di far parlare di sé e io non ci casco” commenta all’Adnkronos Marco Travaglio, direttore del Fatto Quotidiano. “Io non ho nulla da dire, non conosco quel servizio perché all’epoca non dirigevo Panorama” risponde Maurizio Belpietro a proposito della richiesta di risarcimento per una copertina sull’alluvione di Genova. “Ho controllato. Credo che quella copertina risalga al 2015, io non ero direttore, Panorama era di un’altra società. Per cui – sottolinea Belpietro – non ho nulla da dire in merito a questa vicenda che riguarda una stagione precedente rispetto a quella attuale”.

“Mi dispiace che Renzi abbia capito male perché io sono stato una persona molto leale – dice all’Adnkronos lo chef Gianfranco Vissani – Era un modo di dire, come mi diceva sempre anche mio padre ‘sei peggio di Attila, sei peggio di Hitler’. Quello che ho detto è stato che ‘a livello politico ha distrutto un partito, quello che ha fatto Hitler in Germania’”. “Lui quanti anni ha, ce l’ha 40 anni? – si chiede Vissani – Io seguo il partito da prima che lui nascesse: lui con un colpo ha distrutto quello che Berlinguer, Occhetto, D’Alema, Bersani, Veltroni hanno costruito negli anni”. Contattata dall’Adnkronos Alda D’Eusanio replica: “Non so a quale insulto faccia riferimento Renzi ma se mi vuole querelare faccia come crede”. “Credo – prosegue – che si riferisca alla battuta che ho fatto durante una puntata di ‘#CR4 – La Repubblica delle Donne’ condotta da Piero Chiambretti su Rete4, una trasmissione divertente dove il conduttore fa domande scherzose e gli ospiti rispondono. Durante quella puntata Chiambretti mi chiese se secondo me Renzi era più un conduttore o un politico e io risposi che aveva un disturbo della personalità. Se lo ritiene un insulto – scherza D’Eusanio – si vede che è vero!”.

Taglio dei parlamentari, la riforma fa un altro passo.Il PD prende le distanze



Il Partito Democratico dice stop all’approvazione della legge per il taglio del numero dei parlamentari. Dopo giorni di lavoro nella Commissione Affari Costituzionali della Camera, dove i rappresentanti di tutti i partiti stavano discutendo le riforme  costituzionali per diminuire i deputati e i senatori, ieri, i membri del Pd hanno abbandonato la seduta.

Il motivo? Lo ha spiegato il parlamentare Democratico Stefano Ceccanti “prima volevano farci votare il numero dei senatori a vita a prescindere dal numero dei senatori; poi il numero dei delegati regionali a prescindere dal numero dei parlamentari”. Ma per il sottosegretario ai Rapporti con il Parlamento, il pentastellato Simone Valente, la questione è un’altra “Il Pd, che a parole si è sempre detto a favore della riduzione dei parlamentari, getta definitivamente la maschera davanti al Paese: non vuole tagliare i 345 parlamentari previsti dalle nostre riforme”.

Il vice capogruppo del Movimento 5 Stelle a Montecitorio, Francesco Silvestri (nella foto), ha sottolineato “con il taglio dei parlamentari intendiamo riformare la Costituzione per rendere il Parlamento più efficiente e risparmiare il denaro dei cittadini. E’ una cosa seria, per cui sarebbe opportuno che il Partito democratico la smettesse di cercare pretesti e si decidesse a chiarire se è davvero intenzionato a dare il suo contributo per ridurre le poltrone, o se intendono fare un passo indietro”. Oggi riprenderanno i lavori alla Camera, e il Partito democratico dovrà decidere se tornare in partita o no.

La Lega contro il salario minimo. Ennesima beffa per i lavoratori



Strategia della tensione pure sul salario minimo? A leggere le dichiarazioni del sottosegretario al Lavoro, Claudio Durigon, il sospetto che il Carroccio abbia aperto un altro fronte con i Cinque Stelle sembra tutt’altro che infondato. “Un buon contratto è sempre meglio del salario minimo per legge. In Italia le priorità sono altre”, ha detto chiaro e tondo l’ex sindacalista dell’Ugl, asceso in quota Lega al ministero guidato da Luigi Di Maio, parlando davanti alla platea di un convegno della Cisl, al quale ha partecipato anche la presidente della commissione Lavoro del Senato, Nunzia Catalfo, dei Cinque Stelle. Che, però, al momento dell’intervento del sottosegretario aveva già lasciato la sala per un altro impegno.

Certo, nel Movimento non l’hanno presa per niente bene. “Il salario minimo è nero su bianco nel contratto di Governo, Durigon se ne faccia una ragione. Quanto alle sue posizioni, nessuna sorpresa: da ex sindacalista ha sposato, evidentemente, le posizioni dei sindacati”, hanno commentato fonti parlamentari del Movimento contattate da La Notizia. Il ddl sul salario minimo prevede una soglia minima legale di 9 euro lordi ora al di sotto della quale non si può scendere. I sindacati temono che, in questo modo, venga messo in discussione lo strumento della contrattazione. Tesi, a quanto pare, sposata da Durigon. Ma respinta al mittente dai Cinque Stelle. Che ricordano, dati Istat alla mano, come 2,9 milioni di lavoratori siano a rischio povertà.

Qualche esempio? Si va da 6,51 euro l’ora per i servizi di pulizia ai 6,20 nella vigilanza privata, fino ai 5,18 per gli operai agricoli. Una condizione che interessa il 12,2% del totale dei lavoratori italiani contro una media europea del 9,4%. Un gap inaccettabile che, attraverso l’introduzione del salario minimo legale, i Cinque Stelle puntano ad eliminare. In media, per effetto della riforma, ciascuno dei 2,9 milioni di lavoratori a rischio povertà percepirebbe 1.073 euro in più all’anno. Ecco a cosa si oppone la Lega.

"I politici italiani rubano e loro parlano della Raggi?". Giornalista tedesca sputtana i nostri media


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In un post sulla sua pagina Facebook, la giornalista tedesca Petra Reski torna sui vergognosi attacchi dei giornalisti nostrani a Virginia Raggi, ma ha anche un messaggio per tutte quelle persone che dopo il Caso Banca Etruria hanno attaccato la Boschi urlando al "sessismo"

Riportiamo il post:

"Certo fa male a tanti uomini lavorare "sotto" una donna. In particolare quando questa donna è carina e giovane e richiede una cosa così improbabile, scandalosa, eccessiva e inaudita come "non rubare" - in un paese in cui da decenni tutta la classe politica e dirigente, dal presidente del consiglio fino all'ultimo assessore si vanta di rubare davanti agli occhi di tutti. Incompetente, certo. Allora fa bene sfogarsi con un giornalistino in un bar.
Mi chiedo: Dove sono quelli che gridano di sessismo appena si rivela che una ministra è coinvolta negli affari sporchi di suo padre banchiere? E dove sono le donne che si fabbricano un pussy hat per una marcia in favore di Virginia Raggi?"


martedì 16 aprile 2019

Il M5S denuncia l'ennesima porcata di Lilli Gruber. Ecco di cosa si tratta



Otto e Mezzo, la denuncia di Dino Giarrusso: «Da Lilli Gruber un processo alla piattaforma Rousseau»

“Questa sera tornando a casa ho visto un pezzetto di 8 e mezzo, condotto da Lilli Gruber. Non era un approfondimento, non era un dibattito o un talk-show, ma un processo alla piattaforma Rousseau, senza mezzi termini”.

È quanto denuncia Dino Giarrusso, ex inviato delle Iene e candidato alle elezioni europee con il Movimento 5 Stelle.


“Il problema” spiega “è che qualunque processo, persino nei regimi, prevede la presenza di una difesa, un confronto fra le parti e l’esposizione di diversi punti di vista. Invece ad 8 e mezzo c’è spazio solo per l’accusa: accusa violenta e SENZA CONTRADDITTORIO al Movimento cinquestelle, a Davide Casaleggio, a Rousseau, a tutti noi”.

“Signora Gruber, per quanto lei si sforzi di infangarlo, il Movimento è fatto di uomini e donne per bene, distanti dalle lobby e dalle vomitevoli porcate come quelle di cui si è reso responsabile il PD in Umbria, ai danni dei cittadini, e nel silenzio suo e di altri giornalisti evidentemente non interessati a parlarne,” scrive ancora Giarrusso, che spiega:

“Il Movimento Cinquestelle è altissima politica, democrazia diretta, scelta autentica dei candidati da parte degli iscritti: tutte cose che le altre forze politiche italiane nemmeno si sognano, impegnate come sono a spartirsi il potere nei modi che abbiamo visto, e a trattare la cosa pubblica come fosse cosa loro”.

“Nei giorni scorsi gli attivisti hanno votato per scegliere i candidati, e nei prossimi giorni VOTERANNO ANCORA, decidendo se avallare o meno le capolista proposte dal capo politico Luigi Di Maio. Perché nel Movimento sono GLI ATTIVISTI ad avere l’ultima parola, anche riguardo a scelte tanto importanti. Fatevene una ragione, voi che improvvisate processi in TV senza uno straccio di contraddittorio: noi siamo altra cosa, siamo persone per bene.” conclude Giarrusso.

Anche i 5Stelle, in un post pubblicato su Facebook, hanno criticato la conduttrice di Otto e Mezzo: “Avete guardato “Otto e Mezzo” poco fa? Arrestano esponenti del PD in Umbria per concorsi truccati nella sanità, la produzione industriale italiana è prima in Europa nel primo trimestre, e cosa trasmettono in TV? I “5 Stelle nella rete di Casaleggio”. C’è qualcosa di profondamente malato nell’informazione italiana, vero signora Gruber?” hanno scritto sul social network.

Travaglio su Conte: "Per la prima volta un Premier mette al primo posto il bene dei cittadini e non gli affaristi"



Editoriale di Marco Travaglio (08-03-2019)


"Ieri, durante la conferenza stampa di Giuseppe Conte sul Tav, ho capito Lorella Cuccarini. Detta così, lo ammetto, è da perizia psichiatrica. Ma cerco di spiegare questo ennesimo pensiero che non condivido.

La Cuccarini ha fatto una gaffe a Otto e mezzo, dicendo che in Italia non si votava da 10 anni. E tutti l’hanno sottolineata, con quel surplus di perfidia che è riservato a chiunque passi per “sovranista” (anche Landini e Zingaretti sbagliano qualche congiuntivo, ma non sono sovranisti e dunque vengono risparmiati).

Ora, è indubitabile che in Italia si voti al massimo ogni cinque anni. Ma l’impressione che ha causato la gaffe della showgirl l’abbiamo avuta in tanti: che, cioè, dopo le elezioni del 2008 vinte per la terza e ultima volta da B., i governi Monti, Letta, Renzi e Gentiloni prescindessero dal nostro voto.

O lo ribaltassero. O se ne fregassero proprio di noi elettori: non tanto per i premier “non eletti” (l’elezione diretta del premier qui non esiste), ma perché rappresentavano la minoranza degli italiani (estrogenata dal premio incostituzionale del Porcellum); e perché seguivano programmi opposti a quelli che i cittadini avevano votato. Per questo, fra l’altro, il governo Conte continua a godere di tanto consenso, malgrado i tanti errori, carenze, divisioni e qualche vergogna: perché rappresenta, dopo tanti anni, la maggioranza degli italiani. E perché dà mostra di non infischiarsene degli elettori.

Salvini è il cazzaro troglodita che è: ma passa le giornate a rivolgersi direttamente alla gente, col linguaggio della gente, sui problemi della gente (anche se le sue soluzioni sono xenofobe e/o propagandistiche).

I 5Stelle sono l’armata Brancaleone che sono: ma parlano a persone vere e tentano, a volte con successo altre volte con pasticci, di risolverne i problemi. Anche se il governo cadesse domani e non ci tornassero mai più, i “grillini” dovranno vergognarsi di tante cose (dal voto sulla Diciotti a quello sull’illegittima difesa). Ma potranno andare orgogliosi di averle tentate tutte per fermare il Tav e ancor di più di aver avviato il più forte investimento contro la povertà, che nel primo giorno ha portato 60 mila cittadini in difficoltà a fare compostamente domanda alle Poste e ai Caf, sperando in un futuro finalmente dignitoso (tra le risate di una “sinistra” indecente, le previsioni di assalti ai forni di una stampa manigolda e le scomuniche di una Cei vergognosa).

Dall’altra parte, basta leggere l’ultima intervista del figlio di babbo Tiziano al Corriere per capire l’abisso scavato da questa jattura ambulante fra la sinistra e il popolo.

Non contento dei danni fatti all’Italia e al suo partito, ora si congratula con se stesso per aver detto no a Di Maio e – parole sue – “distrutto i 5Stelle”. Veramente, al momento, ha distrutto il Pd. Ma, a voler seguire il suo delirio, i punti persi dal M5S nei sondaggi sono finiti tutti a Salvini, mentre i dem sono fermi al 18%: dunque il suo no ha raddoppiato la Lega.

Se questo era il suo nuovo, mortifero obiettivo, chapeau: missione compiuta. Cercare nell’intervista un solo accenno all’interesse nazionale, al bene dell’Italia o almeno della sinistra, è sforzo vano: la gente non è un problema suo (è lui che è un problema per la gente).

A chi parlava, invece, Conte? Appena nominato premier, suscitò l’ilarità dei fini dicitori perché si definì “avvocato del popolo”. Ieri s’è capito cosa intendeva dire: anziché rifugiarsi nei meandri tecnici dell’analisi costi-benefici sul Tav, l’ha sminuzzata in parole semplici perché tutti capissero l’“interesse nazionale” e il “bene dei cittadini”.

Non si rivolgeva ai giornalisti presenti in sala (fatica sprecata), ma ai cittadini che da trent’anni sentono parlare di questa nuova Grande Muraglia o Piramide di Cheope e non hanno idea di cosa sia, a che serva, quanto costi e chi la paghi.

Parlava soprattutto agli elettori leghisti e pidini, che in buona fede han creduto alle imposture dei loro leader sulla grande occasione di sviluppo dell’immondo buco. E spiegava le ragioni per cui l’enorme spreco di denaro pubblico va fermato finché si è in tempo: l’opera è vecchia e superata; non c’è traffico merci sufficiente a giustificarla; non basta scavare buchi e stendere binari per trasferire le merci da gomma a rotaia, essendo più conveniente caricare i container sui Tir anziché fare su e giù fra Tir e treni; Italia, Francia e Ue butterebbero 15-20 miliardi (con le solite lievitazioni) per perderne 7-8.

Poi – parlando ai “sovranisti”, se così vogliamo chiamare chi non ha scritto “Giocondo” in fronte – Conte ha ricordato che la Francia non ha stanziato un euro per il buco; e, anche se lo stanziasse, pagherebbe la metà dell’Italia per un tunnel che insiste per i due terzi in territorio francese.

Un regalino a Parigi che dobbiamo a B.&Lunardi e ai successori fino a Renzi&Delrio, giustificato col fatto che la tratta di collegamento al buco costa più ai francesi che a noi: peccato che quelli non l’abbiano né iniziata, né finanziata, né progettata.

E noi chi siamo? Pantalone che paga per tutti?

Al posto di Salvini, ci preoccuperemmo più del linguaggio “populista” e “sovranista” di Conte, concorrenziale al suo e diretto alla sua base, e meno dell’eventuale blocco delle gare: per la prima volta un presidente del Consiglio ha fatto capire all’inclita e al colto (categoria, quest’ultima, che esclude il salviniano medio) che a bloccare il Tav ci guadagniamo tutti, tranne una piccola cricca di affaristi.

In un Paese serio, gli autori dell’analisi costi-benefici verrebbero ringraziati per averci fatto risparmiare un sacco di soldi. Invece vengono sputacchiati da giornali e politici prezzolati che, non contenti di averci portati alla bancarotta, ora la vogliono pure fraudolenta."

Capolavoro Conte: così il Premier adesso pretende 65 miliardi di risarcimento per le banche italiane fallite a causa dell'UE



“Bisogna procedere con cautela. E’ un precedente importante: non è da escludere un appello della Commissione ma dobbiamo trarne tutte le conseguenze politiche e giuridiche anche ad esempio sul piano risarcitorio. Mi sembra cosa buona e giusta”. E’ quanto ha detto il premier, Giuseppe Conte, annunciando l’avvio di un’azione risarcitoria verso l’Ue dopo la sentenza con cui il Tribunale Ue ha annullato la decisione di vietare l’uso dei fondi di garanzia di depositi per i salvataggi bancari.

La linea ufficiale dell’Italia, sulla stessa sentenza con cui la giustizia europea ha bocciato la decisione di Bruxelles di impedire al nostro Paese l’utilizzo del Fondo Interbancario a Tutela dei Depositi (Fitd) per il salvataggio di Banca Tercas, è aspettare i 57 giorni che restano alla Commissione per fare ricorso. Nel frattempo sono già partite le riunioni al Ministero del Tesoro per approntare le prossime mosse, che potrebbero portate il nostro Governo a chiedere alla Commissione Europea un maxi risarcimento che potrebbe sfiorare i 65 miliardi di euro.

Il motivo? Si chiama burden sharing o bail in, due principi comunitari che voglioni che siano gli azionisti e gli obbligazionisti a farsi carico del salvataggio delle banche in crisi, attraverso la riduzione del valoro dei titoli in proporio possesso o la loro conversione in capitale. Esattamente quanto è accaduto ai possessori dei titoli di Banca Etruria, CariChieti, Banca Marche, Cariferrara, Veneto Banca e Banca Popolare di Vicenza. E per aspetti simili anche ai possessori di titoli del Monte dei Paschi di Siena.

Visto che la sentenza della Corte di Giustizia ha sostanzialmente giudicato illegittimo il divieto impostoci dalla Commissione Europea di usare il Fitd per salvare queste banche, ora i tecnici del Governo, con l’ausilio della Banca d’Italia, d’intesa con l’Associazione Bancaria Italiana (Abi) e con gli avvocati che si sono occupati della questione, stanno elaborando una strategia. Il primo problema, che sarebbe stato già in parte risolto, è quello del soggetto legittimato a chiedere il risarcimento, che è stato identificato nello Stato italiano, mentre non sembrerebbe sussitere in capo alla Banca d’Italia. L’Abi, invece, per bocca del suo presidente Antonio Patuelli, ha fatto presente che sta studiando “ogni possibilità giuridica, per chiedere e ottenere risarcimento dalla Commissione Europea”.

L’altro nodo da sciogliere è relativo alla quantificazione del risarcimento da chiedere. Infatti se si usa come parametro il valore dei titoli cancellati (azioni e obbligazioni) la cifra è di circa 24 miliardi di euro. Mentre i soldi impegnati dallo Stato per intervenire sulle banche ammontano a più di 40 miliardi. Cifre erogate con una molteplicità di strumenti la cui ricognizione completa richiederà diverse settimane visto che tra fondi, garanzie rilasciate agli istituti di credito, titoli sottoscritti dal Tesoro e contributi rilasciati a favore delle banche che si sono accollate gli istituti in difficoltà, è difficile districarsi. Senza contare che in alcuni casi i soldi spesi potrebbero tornare indietro. Quindi sarà necessario prima capire quanto è stato effettivamente sborsato e quanta parte di questi soldi si sarebbero potuti risparmiare con l’utilizzo del Fondo di Garanzia. La partita è appena iniziata e le elezioni Europee sono alle porte.

Senatori che paghiamo anche da morti: ecco l’elenco completo censurato dalla Stampa italiana



Una volta ultimato il mandato presidenziale, il senatore a vita ha il diritto di ricevere il cosiddetto “assegno di fine mandato”. Gli eredi di Giulio Andreotti, ad esempio, hanno presentato la domanda al Senato per avere la liquidazione da Senatore a vita, nonostante gli importi siano alti, sono calcolati su


 criteri molto simili a quelli dei comuni lavoratori. Sia Andreotti che tutti gli altri senatori a vita, hanno ricevuto gli assegni di fine mandato dagli anni 50 ad oggi. Fino ad oggi sono 34 ad essere stati incassati dagli eredi alla morte del senatore. Gli eredi dei senatori dell’anno 2010 hanno ricevuto il cosiddetto “pagamento agli eredi di persona deceduta” ben 901.818,23 euro. In questo caso, nel 2010 era deceduto solo il senatore Cossiga.

Tra gli altri Senatori a vita che sono deceduti nella storia della Repubblica italiana, troviamo Leo Valiani con 17 anni di attività, Norberto Bobbio 20 anni, Eugenio Montale 14 anni, Giuseppe Saragat 17 anni, Giovanni Gronchi 16 anni e Rita Levi Montalcini con 11 anni di attività. Tra quelli con un’attività più breve si ricordano Arturo Toscanini che dopo un solo giorno si è dimesso, Trilussa con un’attività di 20 giorni, Mario Luzi e Vittorio Valletta della durata di 4 mesi e 9 mesi rispettivamente.

Inoltre, il secondo comma dell’articolo 59 della Costituzione indica che il Presidente della Repubblica ha il diritto di nominare come senatori a vita, 5 cittadini che si sono impegnati per la Patria nel campo sociale, artistico, letterario e scientifico. Ad esempio, il presidente Giorgio Napolitano, durante il suo primo mandato ha nominato un solo senatore a vita scegliendo Mario Monti che a sua volta ne ha nominati quattro. Tra questi, Lorenzo Piano, Elena Cattaneo, Claudio Abbado e Carlo Rubbia durante il suo secondo mandato. Il presidente Sergio Mattarella ha scelto di nominare come senatore a vita Liliana Segre, reduce dell’Olocausto e nominata senatrice italiana a vita lo scorso 19 gennaio 2018.

La donna è sopravvissuta ai campi di concentramento nazisti e ne è la testimone.

Ma quanto ci costano i senatori a vita?

I senatori che vengono nominati dal Presidente della Repubblica ci costano 21.850 euro al mese o 276.639 all’anno per ognuno. L’indennità parlamentare è di 5.219 euro al mese, alla cifra si aggiunge una diaria fissa di 129 euro e una variabile di 3.370. Ma non solo, a queste cifre vengono aggiunti i rimborsi delle spese per l’esercizio del mandato che è pari a 4.180 euro e un rimborso spese forfettario di 1.650. Pensate che sia finita qui? Vi sbagliate. Al totale di queste cifre vengono aggiunti anche i rimborsi delle spese per ragioni di servizio pari a 108 euro, un rimborso di 195 euro per la dotazione di strumenti informatici, l’assicurazione RC di 312 euro e la polizza a vita di 221 euro. Poi si aggiungono anche altre voci di spesa come i treni, gli aerei, le autostrade ecc che arrivano ad un totale di 1.651 euro al mese.


Mafia Capitale, 13 imputati alla sbarra. C'è anche la deputata del PD



Molti “non so“, moltissimi “non ricordo“. Trentanove in tutto, tutti pronunciati in aula. Troppi per i magistrati capitolini, che per tutte le amnesie inanellate il 17 ottobre 2016 hanno rinviato a giudizio per falsa testimonianza deputata la del Partito Democratico Micaela Campana. Con lei, per decisione del gup Costantino De Robbio, andranno a processo altre 12 persone tra le quali Antonio Lucarelli, ex braccio destro del sindaco Gianni Alemanno, e l’ex direttore del Dipartimento promozione dei servizi sociali del Comune di Roma, Angelo Scozzafava. L’accusa: nel corso del processo di primo grado al Mondo di mezzo mentirono davanti ai giudici della X sezione penale del Tribunale di Roma. Il processo è stato fissato al prossimo 13 novembre davanti alla settima sezione penale.

I pm di piazzale Clodio, che il 26 ottobre 2018 avevano chiesto il rinvio a giudizio, contestavano alla Campana di “aver negato reiteratamente numerose circostanze della sua vita politica e personale”, fra le quali “la richiesta rivolta a Salvatore Buzzi di curare il trasloco per il cognato Nicolò Corrado, le ragioni dell’incontro del 4 aprile 2014 con Buzzi presso la sua abitazione, i collegamenti diretti di Buzzi con l’ex viceministro dell’Interno Filippo Bubbico e l’interessamento di quest’ultimo alle vicende inerenti alla gara per la gestione del Cara di Castelnuovo di Porto“. Secondo i pubblici ministeri campana aveva “affermato il falso, ovvero taceva, in tutto o in parte, ciò che sapeva intorno ai fatti sui quali era interrogata”.

Ex moglie di Daniele Ozzimo, assessore alla casa della giunta Marino (condannato in appello a 2 anni e due mesi per corruzione), Campana aveva pronunciato la prima raffica di “non ricordo” proprio a proposito dell’incontro tra Buzzi e Bubbico: la deputata aveva riferito di non ricordare, negando circostanze ben definite nelle intercettazioni telefoniche. “Non ricordo se Buzzi mi indicò le motivazioni per cui mi chiese quell’incontro”, affermava la Campana, che, di fronte all’incalzare delle domande del difensore del presidente della Cooperativa 29 giugno, aveva motivato l’amnesia con il fatto che erano passati diversi mesi.


All’ennesima dichiarazione approssimativa la presidente della Corte, Rossana Ianniello, l’aveva redarguita: “Lei non può rispondere dicendo ‘Probabilmente sì’. Lei è una componente della Commissione Giustizia e dovrebbe sapere che il testimone risponde sui fatti di cui è a conoscenza. E qui non facciamo giudizi sulla base di probabilità”. All’ennesimo “non ricordo” Ianniello era costretta a ricordarle la gravità di una testimonianza falsa in un processo e rincarava: “Lei è anche una persona giovane, quindi questo “non ricordo” continuo come ce lo spiega?“. “Faccio anche altre cose“, era stata la risposta lapidaria della parlamentare Pd.

Nonostante il rinvio a giudizio che pendeva sulla sua testa, il Pd aveva deciso di ricandidarla e con il voto del 4 marzo la Campana era tornata in Parlamento anche nella diciottesima legislatura: ancora una volta alla Camera, dove è membro della commissione Affari sociali. Durante il mandato precedente aveva tenuto per tre anni il proprio assistente con contratti a progetto da 1500 euro lordi al mese. Davanti al giudice  aveva poi accettati di pagarne 16mila, ma in cambio dall’ex collaboratore aveva preteso un impegno al silenzio tombale.

lunedì 15 aprile 2019

Gruber silente sul caso Umbria, il M5s non ci sta: "C'è una grave malattia nell'informazione"



A Lilli Gruber il Movimento Cinque Stelle non è simpatico e questo traspira, per così dire, ad ogni puntata di Otto e Mezzo e, del resto, è perfettamente in linea con l’atteggiamento del suo editore Urbano Cairo che ha schierato, dopo una esitazione iniziale, la sua portaerei, il Corriere della Sera, e una delle Tv più seguite nel nostro Paese, La 7, contro i populismi, i nazionalismi e quindi anche contro il Movimento di Beppe Grillo.

Come è noto, in Italia, al contrario dei Paesi anglosassoni, non esistono editori puri e quindi è sempre molto difficile distinguere l’informazione dalle opinioni, distinzione che, invece, è del tutto fondamentale per l’opinione pubblica.

Questo non è certo solo un problema di Cairo, ma appunto di tutta l’editoria italiana a cominciare da La Repubblica di De Benedetti.

Ma torniamo alla Gruber.

Dino Giarrusso, ex inviato delle Iene ed ora candidato alle Europee per il M5S si è lamentato che la Gruber avesse appena celebrato un processo alla piattaforma Rousseau senza alcun contradditorio come ha anche fatto notare anche il sito “Silenzi e Falsità”.

Giarrusso si è lamentato, nello specifico, che mentre in Umbria erano arrestati e/o indagati i vertici del Pd locale, provocandone il commissariamento nazionale, la Gruber avesse trovato spazio solo per criticare la supposta ingerenza della Casaleggio Associati e della piattaforma di consultazione on-line Rousseau nella politica nazionale.

In Italia sembra ci sia una certa allergia alle forme di democrazia diretta che poi, a ben guardare, sarebbe una delle forme più genuine di democrazia nel solco del pensiero del filosofo illuminista svizzero.

Da notare che, prima di Rousseau, c’è stato anche l’esperimento di una altra piattaforma di decisione condivisa in Rete che si chiama LiquidFeedback ed è ancora utilizzata, anche a livello internazionale, dal Partito Pirata.

I politici peggiori siedono nelle Regioni: NEGLI ULTIMI ANNI NON C’È STATA PRATICAMENTE UNA REGIONE SENZA ALMENO UN PRESIDENTE NEI GUAI CON LA GIUSTIZIA



Catiuscia Marini, indagata per i concorsi truccati nella sanità umbra, è l’ultima dei presidenti di Regione finiti in guai giudiziari. Prima di lei, è lunga la lista di governatori inquisiti o imputati. Alcuni sono stati assolti, altri condannati. Per altri i processi sono in corso. E sono ancor più ricorrenti per i politici regionali che per i parlamentari nazionali.

Abruzzo. Ottaviano Del Turco, governatore dal 2005 al 2008, è stato condannato in via definitiva a 3 anni e 11 mesi per induzione indebita nel processo sulla Sanitopoli abruzzese. Dopo di lui, Luciano D’Alfonso: indagato più volte, ma sempre assolto, è di nuovo imputato per falso e abuso per Pescara Porto.

Basilicata. È in corso l’udienza preliminare dell’inchiesta sulla sanità lucana. A luglio 2018 portò ai domiciliari l’ex presidente Marcello Pittella (Pd), appena rieletto.

Campania. Il presidente Vincenzo De Luca è imputato (da ex sindaco di Salerno) per falso in atto pubblico per la costruzione di piazza della Libertà a Salerno. È stato invece assolto per la nomina del project manager del termovalorizzatore di Salerno e per il Crescent.

Calabria. La Cassazione ha annullato senza rinvio la misura cautelare nei confronti del presidente della Regione Calabria Mario Oliverio, che resta indagato per abuso d’ufficio e corruzione.

Lazio. Renata Polverini è a processo per appropriazione indebita verso il sindacato Ugl: si dimise da governatore dopo lo scandalo delle spese pazze in consiglio. Indagato, verso l’archiviazione, anche l’attuale governatore Pd Nicola Zingaretti: è accusato di finanziamento illecito. Richiesta di archiviazione per Zingaretti anche per l’accusa di falsa testimonianza al processo “Mafia Capitale”.

Lombardia L’ex presidente leghista Roberto Maroni è stato condannato a un anno di reclusione, pena sospesa, per turbata libertà del contraente per l’affidamento di un incarico in Expo all’ex collaboratrice Mara Carluccio. Si trova invece in carcere l’ex governatore Roberto Formigoni: è stato condannato in via definitiva per corruzione a 5 anni e 10 mesi nel processo per le tangenti dalle cliniche Maugeri e San Raffaele.

Molise. La Cassazione ha annullato senza rinvio la condanna per abuso d’ufficio in appello per l’ex presidente Michele Iorio, per una vicenda relativa alla gestione dello zuccherificio del Molise.

Piemonte. Roberto Cota, governatore leghista dal 2010 al ‘14, è imputato per Rimborsopoli: assolto in primo grado, in appello è stato condannato a 1 anno e 7 mesi per peculato (mutande verdi e altro).

Puglia. L’ultimo dei governatori indagati è Michele Emiliano: accusato di finanziamento illecito per la campagna elettorale per le primarie Pd del 2017. È stato invece in parte assolto in parte prescritto in Cassazione l’ex presidente Raffaele Fitto, nel processo su un appalto del 2004 da 198 milioni per 11 rResidenze sanitarie assistite. L’ex governatore Nichi Vendola è imputato per concussione al processo per il disastro ambientale dell’Ilva.

Sicilia. L’ex governatore Totò Cuffaro è stato condannato in Cassazione a 7 anni per favoreggiamento a Cosa nostra. Dopo di lui, guai giudiziari anche per Raffaele Lombardo: a luglio 2018 la Cassazione ha annullato (con rinvio a nuovo processo di appello) la sentenza di secondo grado che l’aveva assolto dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e lo aveva condannato a 2 anni per corruzione elettorale aggravata dal metodo mafioso.

Valle D’Aosta. Augusto Rollandin, ex governatoredell’Union Valdotaine, fu condannato nel 1994 in via definitiva a 16 mesi di carcere (con interdizione dai pubblici uffici, poi estinta) per abuso d’ufficio. Ma è stato ugualmente rieletto. Di nuovo indagato per l’appalto del parcheggio del nuovo ospedale d’Aosta, è stato assolto in primo e secondo grado. A marzo però è stato condannato a 4 anni e 6 mesi per corruzione: favori in cambio di appoggio elettorale.

Umbria. Prima dell’indagine su Catiuscia Marini&C., era finita nei guai anche l’ex governatrice Pd Maria Rita Lorenzetti (ex presidente Italferr): condanna confermata dalla Cassazione a 8 mesi di reclusione (pena sospesa) per falso ideologico su una delibera del 2009 che autorizzava alcune Asl ad assumere personale; e nuovo rinvio a giudizio per i lavori Tav a Firenze.

Sardegna. Francesco Pigliaru (Pd), finito nel mirino della Corte dei Conti per l’acquisto della Hidrocontrol nel 2006 (quando era assessore della giunta Soru) viene dichiarato prescritto nel 2015. Se la cava con la prescrizione, nel 2018, anche il suo predecessore Ugo Cappellacci (FI), per il filone sull’eolico in Sardegna dell’inchiesta P3; ma viene condannato a 2 anni e 6 mesi in primo grado per il crac della Sept Italia.

Il Governo taglia i fondi a "Radio Radicale", le opposizioni s'indignano. Il motivo? Ecco a chi appartiene la radio



Negli ultimi giorni si parla tanto della “voce libera” di Radio Radicale, che senza aiuti dello Stato rischierebbe di “spegnersi“. Dal 1994 ad oggi Radio Radicale ha percepito contributi pubblici per oltre 200 milioni di euro (14 milioni di euro l’anno). La radio fa capo alla società Centro di Produzione Spa.
Chi sono i soci di Centro di Produzione Spa?


Le quote sono così suddivise:
– Associazione politica nazionale Lista Marco Pannella: 62,68%;
– Lillo Spa: 25,00%;
– Cecilia Maria Angioletti 6,17%;
– Centro di Produzione Spa 6,15%.
Tra i soci in elenco desta interesse la partecipazione della società Lillo Spa, che ha sede a Gricignano di Aversa e ha un fatturato di 2,3 miliardi di euro. Si tratta di una holding finanziaria attiva nel campo della grande distribuzione alimentare. La Lillo Spa è di proprietà della famiglia Podini. E nel consiglio d’amministrazione di Centro di Produzione Spa (l’emittente di Radio Radicale), Marco Podini e Maria Luisa Podini ricoprono la carica di consiglieri.

Mi chiedo come mai una holding finanziaria della grande distribuzione sia titolare del 25% di Radio Radicale. E mi domando: come mai Radio Radicale teme di chiudere se ha un socio d’affari che vale oltre 2 miliardi di euro?


Il sindaco di Milano Giuseppe Sala è imputato per falso, ma nessun tg lo dice



Il sindaco di Milano Giuseppe Sala non aveva la consapevolezza della retrodatazione dei verbali relativi alla commissione di gara per la Piastra di Expo. Lo ha detto lo stesso Sala in aula rispondendo alle domande e spiegando che "della data non me ne sono preoccupato" e di non ricordare il momento esatto della firma.

Sala, imputato per falso in relazione alla retrodatazione di due verbali per sostituire in corso d'opera due componenti della commissione di gara per la Piastra, ha ricordato che la questione della incompatibilità dei due commissari, posta da Ilspa (Infrastrutture Lombarde spa, società partecipata da Regione Lombardia), per lui "era uno dei tanti problemi sorti in Expo e che era stato risolto in modo abbastanza veloce", in quanto ha ribadito in aula, "c'era sempre il tema dell'urgenza. Ogni giorno, nonostante fossimo a tre anni dalla chiusura, era chiarissimo che eravamo in ritardo. Ogni giorno perso era un giorno in meno. E' stata una lotta contro il tempo".  Rispondendo ai cronisti, a chi gli ha chiesto se spera di essere assolto ha replicato: "Spero fortemente di sì".


Fazio, adesso è scritto nero su bianco! E’ ufficiale: è fuori da Rai Uno!



Secondo alcune indiscrezioni. “Che tempo che fa” sarebbe fuori dalla stagione televisiva 2019-2020. Altra rete o chiusura?

Secondo alcune indiscrezioni riportate da Dagospia, Fabio Fazio sarebbe uscito dai palinsesti di Rai Uno della prossima stagione televisiva.

Il conduttore da tempo è nel mirino dei gialloverdi e soprattutto da qualche mese è calato il gelo tra lui e il vicepremier Matteo Salvini. A far crescere le tensioni tra il Carroccio e il conduttore di Che tempo che fa sono state le ripetute ospitate e interviste “faziose” (vedi l’esempio del colloquio con Macron) che poco spazio hanno lasciato all’area sovranista. A questo vanno aggiunti i monologhi di Saviano in studio (lo stesso Saviano che ha definito Salvini “ministro delle Mala Vita”) e il peso del cachet del conduttore.

Proprio ieri il ministro degli Interni ha mandato un messaggio chiaro per Fazio. In vista del voto per le Europee del prossimo 26 maggio, diversi leader politici sfileranno nel salotto di Fazio. Dalle interviste per la campagna elettorale si è tirato fuori proprio il vicepremier leghista che ha affermato: “Le regole della par condicio prevedono che da Fabio Fazio ci debbano andare i 4 leader di partito, Berlusconi, Zingaretti, Di Maio e Salvini: io per coerenza e rispetto degli italiani non andrò da Fazio. In un momento economico di difficoltà che non si dimezzi lo stipendio…”. E proprio sul suo contratto si era espresso lo stesso Fazio nel corso di una puntata di Che tempo che fa : “Il mio legame con la Rai durerà ancora per altri due anni”. Ora, secondo Dagospia, il conduttore potrebbe passare ad un’altra rete del servizio pubblico oppure potrebbe lasciare definitivamente viale Mazzini. Bisognerà attendere i palinsesti definitivi per capire quale programma avrà intenzione la Rai di posizionare al posto di Che tempo che fa.

domenica 14 aprile 2019

«Non si può usare un carabiniere o un poliziotto come autista privato». Il Governo pronto a tagliare le scorte ai politici




L'annuncio del Viminale: pronta la "razionalizzazion" delle forze dell'ordine per le misure di tutela personale.


il Viminale annuncia la razionalizzazione partirà una razionalizzazione delle 585 scorte attualmente in vigore, di cui 15 per personalità nei confronti delle quali c'è massima allerta. Lo affermano fonti del Viminale sottolineando che la questione è stata affrontata ieri nel corso del Comitato nazionale per l'ordine e la sicurezza pubblica. L'obiettivo del ministro dell'Interno Matteo Salvini è una verifica dei dispositivi di protezione per evitare errori di valutazione e, inoltre, prevenire abusi e sprechi.

I numeri
Le scorte oggi in vigore occupano complessivamente 2.072 unità delle forze dell'ordine: si tratta di 910 poliziotti, 776 carabinieri, 290 finanzieri e 96 operatori della polizia penitenziaria. Quattro le categorie dei dispositivi di protezione, in base al livello del rischio. Quello più elevato riguarda oggi 15 persone e impegna 171 agenti. 57 cittadini hanno invece la protezione di 'secondo livello', vale a dire una scorta su auto specializzata (383 agenti in tutto) composta da più mezzi, mentre per altri 276 cittadini la tutela su auto specializzata è di terzo livello (823 agenti impiegati) e 237 hanno una tutela su auto non protetta, vale a dire una scorta di quarto livello che coinvolge 695 operatori.

Magistrat, politici, dirigenti, giornalisti
Dei 585 nomi protetti dallo Stato, dicono ancora dal Viminale, quasi la metà (277) sono magistrati, seguono i leader politici nazionali e locali (69) e i dirigenti d'impresa (43). Ci sono anche 21 giornalisti e 18 esponenti governativi. A livello regionale, il maggior numero di scorte si concentra nel Lazio e in Sicilia, rispettivamente con il 31,6% e il 21,9% delle misure di protezione nazionali. Seguono Calabria (12,5%), Campania (12%), Lombardia (7,2%). Oltre ai servizi di scorta, inoltre, lo Stato mette a disposizione 38 servizi di vigilanza fissa con 221 persone impegnate: 18 poliziotti, 56 carabinieri, 147 unità dell'esercito.

Scanzi: "Con Conte per la prima volta dopo 30 anni gli italiani non si vergognano del proprio Premier"



(Andrea Scanzi) – Se volete ridere (per non piangere), rileggetevi gli epiteti con cui venne accolto Giuseppe Conte tra maggio e giugno. Neanche aveva cominciato a fare il Presidente del Consiglio, che già era stato dilaniato dalla stessa classe dirigente che – con la sua incapacità – aveva aperto la strada al Salvimaio e dalla stessa informazione che – con la sua ruffianeria – ne aveva incensato i predecessori. Conte era un millantatore, un prestanome, un incapace: un omino inutile, telecomandato come Ambra con Boncompagni. E questi erano i complimenti: di solito lo si riteneva null’altro che un mezzo deficiente, comandato per giunta da due minus habens come Salvini e Di Maio. E’ ancora il parere di chi resta turborenziano, tipologia umana che temo non potrebbe essere salvata neanche dal combinato disposto di Jung e Freud.
Era più che lecito avere dubbi su un sostanziale sconosciuto, scelto dal M5S come Ministro della Pubblica Amministrazione nell’impossibile monocolore 5 Stelle e – di colpo – catapultato in cima a un governo di per sé stravagante. Ora, però, se ci fosse un minimo di onestà intellettuale e non questo generalizzato tifo purulento di qua e di là, bisognerebbe ammettere come e quanto Conte stia stupendo: in positivo. Ne è prova ultima la risoluzione, colpevolmente tardiva ma politicamente encomiabile, del caso Sea Watch-Sea Eye. Una risoluzione (si ribadisce tardiva, e in quel ritardo c’è tutta la colpa del governo italiano e dell’Unione Europea) che dimostra non solo il talento diplomatico di Conte (e Moavero), ma pure la sua autonomia. Da mesi va avanti la nenia secondo cui, nel governo, faccia tutto Salvini. A furia di ripeterlo nei social e talkshow, è divenuto una sorta di Dogma. Ma è così vero che Salvini regni e signoreggi su Di Maio, Conte e il mondo intiero, compresa la non marginale Galassia di Andromeda? E’ vero mediaticamente ma non politicamente: a parte il Dl Sicurezza, pieno peraltro di storture, per ora di concreto Salvini si è fatto – più che altro – le pippe a manetta. Conte, reputato “prestanome” dagli stessi che celebravano Monti (noto filantropo vicino ai deboli), veneravano la Diversamente Lince di Rignano e santificavano Gentiloni dimenticandosi quel suo essere “prestanome” di Renzi, ha più volte messo all’angolo Salvini. Sulla Sea Watch, sugli inceneritori, sulla legge anticorruzione. E si spera pure su trivelle e Tav.
A settembre, in tivù, osai affermare che sul Salvimaio avevo (ho) miliardi di dubbi e certe cose mi facevano (fanno) schifo il giusto, ma che Conte era la sorpresa più positiva dell’esecutivo e che mi pareva già allora il miglior Presidente del Consiglio dai tempi di Prodi. Fui massacrato, e ovviamente il massacro arrivò dai soliti scienziati rintanati nei loro attici con vista grandangolare sul proprio ombelico. Oggi ribadisco il concetto, ben sapendo che neanche gli faccio tutto ‘sto gran complimento: anche una sogliola morta di onanismo sarebbe preferibile a Renzi.
Conte è migliorato pure nei suoi discorsi in Parlamento, dove all’inizio soffriva parecchio, e in tivù, dove – altro suo unicum – si ostina ad andare pochissimo. Le prime volte, da Floris a ridosso del voto (quando raccontò di provenire dalla sinistra) e poi ancora a DiMartedì dopo la nascita del Salvimaio, parve moscio. Idem all’esordio da Vespa, durante la quale mostrò il santino di Padre Pio a cui è devoto. Pochi giorni fa, ancora a Porta a porta, si è rivelato molto più sicuro e quasi baldanzoso (“Salvini non vuole sbarchi? Vorrà dire che li farò prendere in aereo..”). L’uomo non disdegna l’ironia. A volte esagera (“I tagli ai pensionati sono impercettibili, nemmeno L’avaro di Molière se ne accorgerebbe”) e a volte ci prende (“Chi butto dalla torre tra Renzi e Gentiloni? Renzi si è già buttato da solo…”). Sottovalutandolo (quasi) tutti oltremodo, hanno finito col rendere ancora più evidenti le sue qualità: un’altra delle troppe cantonate di una cosiddetta “opposizione” che non riuscirebbe a essere così ridicola neanche se ci si impegnasse deliberatamente.
Aggiungo un ultimo aspetto legato alla sua veste diplomatica. Quando Conte va all’estero, è assai a suo agio con le lingue (compresa quella italiana: e già qui c’è del clamoroso). Non solo: ai summit coi (presunti) grandi della terra, non fa le corna e neanche si improvvisa ilare bullo come quell’altro gradasso quando incontrava Schultz. Cordiale, affabile: sicuro di sé. Forse è la prima volta dal 2006 che tanti italiani non si vergognano di un Presidente del Consiglio. Non che Conte sia un fenomeno: è solo un uomo serio e normale alla guida di un governo improbabile e sbilenco, che a volte le indovina e più spesso no. Ma anche solo essere “normali”, in questi tempi di fenomeni finti e politica sputtanata, suona quasi rivoluzionario.

Prostituzione e droghe leggere legalizzate? Ecco l'ultima idea del Governo. L'Italia ci guadagnerebbe 10 miliardi l'anno



La ricerca affannosa di almeno 23 miliardi di euro per evitare di dover alzare l’iva potrebbe spingere la Lega e il Movimento 5 Stelle studiare soluzioni non convenzionali, come la legalizzazione delle prostituzione e delle droghe leggere. Il percorso politico è ancora in fase embrionale ma ai piani alti del Movimento 5 Stelle si ragiona sul fatto che entrambi i partiti concordano sul fatto che clausole di salvaguardia sull’iva devo essere disattivate perché non è percorribile l’idea di alzare il prelievo fiscale sui cittadini, come è parimenti impraticabile la reintroduzione delle tasse sulla prima casa.

Meno che meno l’idea di una patrimoniale o di prelievo forzoso dai conti correnti. Certo, una lotta seria all’evasione fiscale potrebbe risolvere quasi tutti i problemi di finanza pubblica del nostro Paese (il Def appena approvato la quantifica in 73 miliardi l’anno) e sarebbe assolutamente congeniale alla vecchia guardia del Movimento 5 Stelle, ma molto meno per l’area governista. Ma per la Lega è una soluzione assolutamente indigeribile. Così se non si vogliono alzare le tasse, resta la spending review, ma oltre a essere molto difficile da applicare, fa perdere voti.

A questo punto, se non si vuole puntare tutto sul gioco delle tre carte, spostando il prelievo fiscale da un parte all’altra nella speranza che i cittadini non se ne accorgano (con le opposizioni che non vedono l’ora di azzannare il Governo Conte su una cosa del genere) o ripristinare la stagione dei trucchetti contabili con Bruxelles, resta una sola possibilità. Creare per legge un mercato, che secondo uno studio della Banca d’Italia del 2012, vale circa 10 punti di pil l’anno, cioè 170 miliardi. E’ questa, infatti, secondo il documento pubblicato dall’Istituto da guidato da Ignazio Visco sull’economia sommersa in Italia, la dimensione complessiva del mercato della droga e della prostituzione nel nostro Paese.

Certo non tutti questi soldi si trasformerebbero in entrate per lo Stato, ma secondo stime realistiche, dalla legalizzazione della prostituzione potrebbe emergere un gettito erariale di circa 1,8 miliardi ogni anno e altri 8 miliardi potrebbero arrivare dalla liberalizzazione delle droghe leggere. Oltre alle entrate ci sarebbero poi da considerare le minori spese sostenute dallo Stato per la repressione dei crimini legati alle droghe leggere, forze dell’ordine, magistratura e carceri. Che possono essere quantificate in circa 500 milioni l’anno.

La questione da scogliere è tutta politica visto che il partito di Matteo Salvini non vuole le legalizzazione delle droghe, mentre quello di Luigi Di Maio è contrario a intervenire sulla prostituzione. Ma con questi buchi di bilancio, c’è chi ragiona sul fatto che se entrambi i partiti digerissero il pezzo di legalizzazione che non gli piace, si creerebbe lavoro sottraendolo alla criminalità organizzata e lo Stato ci si farebbe ricco. Ora bisogna aspettare per vedere se l’ideologia prevarrà sulla concretezza.

Taglio numero dei parlamentari, PD e FI pronti alla guerra: "Non lo permetteremo"



C’è chi punta ad abbassare l’età minima per gli aspiranti senatori. E pure quella prevista per il Presidente della Repubblica. Che Fratelli d’Italia propone venga eletto direttamente dai cittadini. Senza parlare della lotteria sulla composizione del futuro Parlamento. C’è chi vorrebbe aumentare il numero dei deputati a 500 (+Europa), 100 in più di quanto previsto dalla proposta di legge (pdl) costituzionale M5S-Lega già approvata in prima lettura a Palazzo Madama, e chi, invece, vorrebbe abbassare a 100 (il Pd) quello dei senatori, che la stessa pdl di maggioranza fissa a 200.

Insomma, c’è davvero di tutto nei 50 emendamenti che, martedì prossimo, saranno esaminati dalla commissione Affari costituzionali della Camera, presieduta da Giuseppe Brescia (M5S). “Lavoreremo con l’obiettivo di rispettare i tempi previsti per l’arrivo in aula del provvedimento, fissato dalla capigruppo per lunedì 29 aprile”, promette il presidente della commissione. Dove molti degli emendamenti (nessuno dei relatori) sembrano già destinati all’inammissibilità.

A farla da padrone sono le proposte di modifica del Partito democratico (circa la metà del totale). Puntano, innanzitutto, ad abbassare, rispetto alla pdl M5S-Lega, il numero dei senatori da 200 a 100 e pure l’età minima richiesta per candidarsi a Palazzo Madama (a 25 anni). Ma, allo stesso tempo, rilanciano il superamento del bicameralismo perfetto, rispolverando, in versione rivista e corretta, un pezzo della riforma Renzi-Boschi già bocciata al referendum costituzionale del 4 dicembre 2016. “La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere per le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali, e soltanto per le leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali concernenti la tutela delle minoranze linguistiche” e “i referendum popolari”, recita l’emendamento 1.6.

Elencando una serie di competenze che vanno dalle “leggi che determinano l’ordinamento, la legislazione elettorale, gli organi di governo, le funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane” alla “formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea”. Tutte le altre leggi, specifica il testo, “sono approvate dalla Camera dei deputati”. Solo l’assemblea di Montecitorio, inoltre, accorda e revoca la fiducia al Governo. Ma non è tutto.

Gli emendamenti 2.18 e seguenti del Pd, prevedono che “i presidenti delle Giunte regionali e i presidenti delle Province autonome di Trento e di Bolzano, partecipano con diritto di voto ai lavori del Senato limitatamente all’esame dei disegni di legge” concernenti la materia dell’autonomia regionale (articoli 116, 119, 120 della Costituzione), del sistema di elezione e dei casi di ineleggibilità e incompatibilità degli organi regionali (122), della fusione e creazione di nuove Regioni (132).

Nonché, aggiunge il testo, “all’esame dei disegni di legge in materia di rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni, in materia di rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni”, di “coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario e in materia di governo del territorio”. Poi ci sono gli emendamenti di +Europa. Che puntano ad innalzare il numero dei deputati a 500 e quello dei senatori a 250 (contro i 400 e i 200 previsti dalla pdl M5S-Lega). E’, invece, di Liberi e Uguali il copyright della proposta di abbassare a 40 anni l’età minima richiesta per l’elezione alla presidenza della Repubblica e a 25 per gli aspiranti senatori.

Come pure dell’emendamento che punta ad aumentare fino a 530 il numero dei seggi alla Camera dei deputati e a 265 quelli del Senato. E non finisce qui. A sparigliare ci pensa Fratelli d’Italia, con un emendamento che guarda al Quirinale. “Il Presidente della Repubblica è eletto a suffragio universale e diretto”, recita il 3.02, tra i cittadini che abbiano compiuto quarant’anni. Resta in carica “per cinque anni”, invece degli attuali sette, e può essere rieletto una sola volta. Nomina il primo ministro e “presiede il Consiglio dei ministri”. Insomma, di tutto di più. Semipresidenzialismo compreso.

giovedì 11 aprile 2019

BUNGA BUNGA, E’ ARRIVATA LA CONDANNA DEFINITIVA: Emilio Fede entro 30 giorni finisce dritto in galera!



I giudici delle Cassazione hanno dichiarato inammissibili i ricorsi e quindi hanno confermato la condanna a 4 anni e 7 mesi di reclusione per l’ex direttore del Tg4 Emilio Fede e a 2 anni e 10 mesi per l’ex consigliera regionale della Lombardia Nicole Minetti nel processo Ruby bis, che ha al centro l’accusa di favoreggiamento della prostituzione per le serate nella villa di Silvio Berlusconi ad Arcore.

Fede dovrebbe scontare la prima parte della pena, alcuni mesi di detenzione domiciliare, e non in carcere, per poi chiedere l’affidamento in prova ai servizi sociali. La Minetti, invece, condannata a una pena inferiore ai 4 anni, potrà subito chiedere l’affidamento in prova.

Nel caso dell’ex direttore del Tg4, i magistrati della Procura generale dovranno emettere un ordine di carcerazione, per via della condanna superiore ai 4 anni. L’ordine potrà comunque essere sospeso dai magistrati, concedendo quindi 30 giorni alla difesa del giornalista per ottenere la detenzione domiciliare in virtù dell’età, cioè 87 anni. “Io sono stato condannato perché ho indotto sei ragazze alla prostituzione – ha detto Fede all’Adnkronos dopo aver appreso della sentenbza – Perfetto. Punto e basta. Se qualcuno ci crede va bene. Non commento minimamente. Mi viene da ridere. Intanto devo scegliere dove fare gli arresti domiciliari, se a Roma, a Napoli, a Capri o a Milano. Chi può credere che io abbia potuto far prostituire delle ragazze con Berlusconi? Alcune di queste ragazze io non le conoscevo neanche. Le due ragazze di Torino le ho viste una volta nella vita. Mah, davvero noon voglio aggiungere altro”.

12 milioni di euro di tangenti sul MOSE: Ecco l'ultima porcheria targata PD




 Dopo anni di indagine attraverso accertamenti contabili e rogatorie internazionali, la Guardia di finanza di Venezia è riuscita finalmente a mettere le mani sul cosiddetto “tesoro” di Galan, ovvero sui soldi derivanti dalle tangenti che venivano intascate per la costruzione del Mose. Nelle scorse ore infatti le Fiamme Gialle  del nucleo di Polizia economico finanziaria di Venezia, su ordine del Gip del capoluogo veneto, hanno eseguito un provvedimento di sequestro di beni per ben 12,3 milioni di euro nell’ambito di un indagine per riciclaggio internazionale ed esercizio abusivo dell’attività finanziaria avviata proprio per individuare il reinvestimento all’estero delle tangenti incassate dall’ex presidente del Veneto Giancarlo Galan per la costruzione del Mose.

I sequestri interessano sei persone e riguardano denaro depositato presso banche venete, due imprese, quote di società e 14 immobili. Indagando sui soldi del Mose, infatti, le Fiamme Gialle hanno scoperto un vasto giro di riciclaggio di denaro nero che coinvolge altri imprenditori veneti e due commercialisti per un totale di sei persone indagate. Secondo quanto scoperto dai militari coordinati dalla Procura della Repubblica di Venezia, attraverso due commercialisti padovani, ingenti somme proventi dell’evasione fiscale realizzata da imprenditori veneti venivano dirottate in diversi conti correnti esteri, prima in Svizzera e poi in Croazia, intestati a società di Panama e delle Bahamas e gestiti da due fiduciari elvetici. Dopo il lungo giro, infine, i soldi rientravano successivamente nella disponibilità dei proprietari che li hanno utilizzati per effettuare investimenti anche di natura immobiliare sia in Italia che all’estero.

Nel corso di alcune perquisizione negli uffici di una società fiduciaria elvetica, infatti, è spuntata fuori una lista contenente i nomi di numerose società italiane che avevano affidato la gestione dei capitali in nero ai professionisti svizzeri. Per quanto riguarda Galan, le indagini hanno consentito di accertare che tra il 2008 ed il 2015 i due commercialisti, tramite il loro studio, avevano garantito l’intestazione fiduciaria di quote di una società veneziana che dalle indagini sul Mose era risultata essere di fatto riconducibile all’ex ministro ed ex governatore del Veneto.

Prestiti garantiti, le banche tradiscono il Paese! Il m5s è pronto a dare battaglia

Solite banche. Con le imprese allo stremo a causa dell’emergenza coronavirus, che ha generato una pesantissima crisi economica e ha fatto fi...