domenica 29 luglio 2018
“Troppo filo-grillino” Telese fatto fuori dallo storico programma: così il regime epura chi fa informazione in maniera libera
di Fabrizio Biasin per Libero
Hanno presentato i palinsesti autunnali di Radio 24, l’emittente radiofonica del Gruppo 24 Ore. Hanno scelto il Mudec, il Museo delle culture di Milano, un posto dove è consigliabile non sbagliare i congiuntivi. Ma badiamo al sodo.
La prima cosa da scrivere, doverosa, è che stiamo parlando di una radio in ottima salute, con 2 milioni e 200mila ascoltatori giornalieri «conquistati» nel 2017 e confermati nel primo semestre del 2018. Davvero molto bravi. La seconda cosa da scrivere è che in un palinsesto completo e parecchio «definito» le conferme sono moltissime e, per questo, le non-conferme fanno ancora più rumore.
CAMBIO ALL’ALBA
Luca Telese, reduce da una stagione da «gestore» della delicata e importantissima fascia del mattino, scende dalla barca. Al suo posto arriva Maria Latella, già volto noto di Sky e voce dell’emittente: si prende la fascia 6.30-9, con 24Mattino accompagnerà gli italiani al lavoro, leggerà loro i quotidiani, commenterà le notizie. Lo faceva anche Telese che, però, secondo i classici «beninformati» aveva nell’ultimo periodo perseguito una linea troppo «grillina» e, per questo, ha infine perso il «regno» del mattino. Alla Latella, carica al punto giusto, il compito di non far rimpiangere il suo predecessore.
Con lei tutte le mattine dalle 8.15, dal lunedì al venerdì, ci sarà Oscar Giannino, che torna anche nel pomeriggio con La versione di Oscar (ore 16) e si «accorcia» al sabato per dare spazio al nuovo Io sono il cattivo del giornalista e reporter Giampaolo Musumeci.
La terza cosa da scrivere riguarda i punti di forza di un palinsesto piuttosto «frizzantino»: dalle 9 alle 11 ritorna Alessandro Milan con un programma il cui titolo… è tutto un programma (Uno, nessuno, 100Milan, ovvero i fatti del giorno visti con il personalissimo sguardo del conduttore. Al suo fianco il «visionario» Leonardo Manera). Confermatissimi Focus Economia del vicedirettore esecutivo Sebastiano Barisoni, l’insostituibile (e imbattibile, diciamolo) Zanzara di Giuseppe Cruciani, Il Falco e il gabbiano di Enrico Ruggeri, il seguitissimo approfondimento sportivo Tutti convocati con Carlo Genta, Pierluigi Pardo e Giovanni Capuano.
La quarta cosa da scrivere ci trasporta al palinsesto del fine settimana, assai «carico» a guardar bene: al sabato ci sono le buone notizie di Alessio Maurizi in Si può fare; il mondo visto attraverso i social della brava Marta Cagnola, padrona di casa di Radiotube; l’accoppiata Pardo-Oldani, maestra di cucina e di racconto in Mangia come parli (seguitissimi anche nella replica della domenica grazie al loro approccio pop e decisamente ironico).
E LE STORIACCE…
La domenica mattina torna la Latella con Nessuna è perfetta, mentre il pomeriggio dalle (14-20) viene accorpato in un unico grande contenitore chiamato Passione Domenica e suddiviso in tanti «sotto-capitoli»: dalla «passione in voce» di V Factor con Pino Insegno (vero e proprio talent per doppiatori), alla «passione in viaggio» di Globetrotter con Valeria De Rosa. Tra gli altri, alle 21, ecco I racconti di storiacce di Raffaella Calandra: un’inchiesta alla settimana per smascherare furbetti, corrotti e infamoni vari. Buon ascolto.
Parlamentari assenteisti? Ecco la top Ten dei Parassiti che campa a nostre spese per non fare un tubo
Deputati e senatori sono stati eletti dai cittadini per lavorare in Parlamento. Andrea Mura, con il 96,38% di assenze, non ha rispettato le regole «e il Movimento l’ha espulso». Adesso, spiegano dal
Movimento 5 stelle in un duro post sul blog delle stelle, «chiediamo che la stessa cosa venga fatta anche dalle vecchie forze politiche!». Tramite i dati pubblici presenti su openpolis.it il Movimento ha quindi fatto l'elenco - «la top ten» come l'hanno chiamato - dei parlamentari più assenteisti e ha estratto quelli che hanno più dell'80% di assenze. «Partiamo da Forza Italia che detiene un triste primato: nella classifica stilata da Openpolis la più assente alla Camera dei Deputati, con lo 0,45% di presenze, è Michela Vittoria Brambilla. La deputata di Forza Italia ha partecipato a una sola votazione, collezionando il 99,55% di assenze alle votazioni».
I più assenteisti
Tra i più assenteisti troviamo anche Piero Fassino. Il deputato del Pd ha il 91,86% di assenze: ha partecipato solamente a 18 votazioni su 221. Erasmo Palazzotto di Liberi e Uguali segue con l’88,69%, mentre Carolina Varchi di Fratelli d’Italia ha l’88,24% di assenze alle votazioni. In classifica troviamo anche Giorgia Meloni, leader di FdI, con l’85.07% di assenze e Marzia Ferraioli di Forza Italia con l’83,71%.
La classifica del Senato
Al Senato Forza Italia consolida il suo primato. Sono 3 i senatori che hanno collezionato più dell’80% delle assenze. Nel dettaglio si tratta di: Paolo Romani (ha partecipato a una sola votazione), Niccolò Ghedini (92.44% di assenze) e Giacomo Caliendo (83.11%). Da segnalare anche Licia Ronzulli, sempre di Forza Italia, con il 79.11% di assenze (ha votato 47 volte su 225 votazioni).
L'attacco del Movimento 5 stelle
Una situazione «vergognosa, parlamentari pagati fior di quattrini che snobbano il Parlamento». Per questo il Movimento 5 stelle chiede «a Pd, Forza Italia, Fratelli d’Italia e LeU di espellere dai propri gruppi i parlamentari che hanno disertato Camera e Senato, così come fatto dal MoVimento con Mura! Chi non partecipa all’attività parlamentare, senza delle reali motivazioni e non rappresenta fedelmente l'elettore da cui esclusivamente dipende, deve essere punito!».
Martina, che figura di merda! Scrive ad una disoccupata per infamare il governo? Così lei lo demolisce pubblicamente: uno sputtanamento totale!
Mercoledì alla Camera inizierà l’esame del decreto Dignità. Il provvedimento, approvato dal governo il 2 luglio, ha subito diverse modifiche durante il passaggio nelle commissioni di Montecitorio, ma
resta intatta l’ impostazione di fondo: dal 1° novembre, in buona sostanza, per le imprese italiane sarà più difficile usare contratti a tempo determinato. Per quelli di durata superiore ai dodici mesi, sarà obbligatorio indicare la causale; comunque non potranno essere rinnovati più di quattro volte(invece che cinque) e non potranno sforare il limite massimo di 24 mesi (e non più 36).
L’obiettivo è contrastare il precariato spingendo le aziende a stabilizzare i dipendenti. Secondo Confindustria e l’opposizione, in particolare il Pd, ci sarà l’effetto contrario e i precari di oggi diventeranno i disoccupati di domani. Per supportare la tesi, in questi giorni vengono enfatizzati i primi casi di persone che – precari da più di due anni, quindi non più “rinnovabili” – sono mandate a casa (o sono in procinto di esserlo) dai propri datori.
Un episodio è stato raccontato su Repubblica: Valeria, neo-mamma di 35 anni, lavorava per Anpal servizi, società pubblica controllata dall’agenzia Anpal che si occupa proprio di politiche del lavoro e aiuta i disoccupati a trovare un impiego. Valeria aveva un contratto a termine da agosto 2016. Viste le nuove norme, non potrà essere rinnovato: Anpal servizi – amministrata da Maurizio Del Conte, professore nominato da Matteo Renzi come responsabile delle politiche attive e tra gli autori del Jobs act – l’ha mandata a casa. Licenziata dal decreto Dignità? No, cacciata (o, meglio, non rinnovata) da Anpal Servizi che ha preferito privarsi di lei piuttosto che stabilizzarla. L’azienda in house (ex Italia Lavoro) era al centro del Jobs act: Renzi voleva trasformarla nel braccio armato contro la disoccupazione. Poi però non è riuscito nemmeno a garantire un posto fisso agli 800 precari che ci lavorano (su 1.300 dipendenti). Questi addetti lottano da tempo per ottenere la stabilizzazione; un anno fa era stata promessa almeno ai più “anziani”, ma – raccontano – si è bloccato tutto dopo 50 assunzioni.
Ieri il segretario Pd Maurizio Martina ha rilanciato su Twitter la notizia di Repubblica incolpando il governo per la perdita di lavoro della giovane mamma. A rispondergli è stata però la stessa Valeria: “Non giocate sulla mia pelle la partita tra Pd e M5S. Il Pd non è esente da responsabilità#jobsact. La soluzione è la stabilizzazione dei precari, per me e per gli 800 di Anpal servizi”. A questo intervento si sono aggiunti quelli dei colleghi di Valeria. Il tweet di Martina, insomma, si è rivelato un autogol.
Un’altra storia utilizzata dai critici del “decreto dignità” è avvenuta a Benevento, nello stabilimento dove Nestlé produce la pizza surgelata Buitoni. Venti lavoratori interinali non sono stati rinnovati alla scadenza del secondo anno: Nestlé ha ammesso di averli lasciati a casa per le nuove norme, tuttavia ha fatto sapere che in quel sito sono previsti nuovi investimenti e assunzioni. Sarà un’occasione per richiamare i somministrati cacciati? “Valorizzeremo le competenze maturate sul territorio”, dice Nestlé. Tradotto: forse riassumeranno loro, forse assumeranno altri. Comunque, resta il fatto che, anche in questo caso, se quei lavoratori non rientreranno in azienda, non saranno stati mandati a casa dal “decreto dignità” ma da scelte dell’impresa.
Il fatto che il limite massimo per i contratti a tempo determinato passi da 36 a 24 mesi non può di per sé giustificare un aumento della disoccupazione. Le aziende, una volta raggiunto il limite di due anni, avranno due opzioni:stabilizzare il dipendente o lasciarlo e prenderne un altro al posto suo. Questo significa che aumenterebbe il turnover ma sul piano della matematica non si tratterà di un posto di lavoro in meno, perché quella posizione resterà attiva, semplicemente sarà ricoperta da un’altra persona (ovviamente, nessuno vorrebbe essere il lavoratore sostituito). Fino a ieri, peraltro, tanti precari venivano messi alla porta al termine del terzo annoanziché del secondo: nessuno però attribuiva al limite di 36 mesi per i contratti a termine le cause della disoccupazione.
I critici del decreto spesso confondono gli effetti sul singolo contratto del nuovo limite di 24 mesi con quelli contenuti nelle stime dell’Inps inserite nella relazione tecnica: secondo il presidente Tito Boeri si perderanno 8mila occupati a termine ogni anno per i prossimi 10. La sua previsione si basa sul calcolo – desunto dall’analisi di casi precedenti di modifiche normative di portata simile – per cui, su una platea di 80mila lavoratori a termine in servizio da più di 24 mesi, il 10% non sarà stabilizzato né sostituito. E questo per i prossimi dieci anni.
Questo calcolo, pur con linguaggio burocratico, è stato smontato dal Servizio Bilancio della Camera, che ha fatto notare l’arbitrarietà dei parametri scelti e come il calcolo presupponga modifiche dei comportamenti degli attori in gioco (le imprese) difficilmente prevedibili a tavolino. Secondo i tecnici di Montecitorio, infine, la platea totale dei contratti considerata da Inps è la metà di quella reale. Senza contare che una perdita di 8mila posti su 4,5 milioni di contratti a termine interessati alle nuove norme stipulati nel 2017 rischia di essere un mero “rumore statistico”. Boeri ha comunque difeso il suo calcolo: “È persino ottimistico”.
resta intatta l’ impostazione di fondo: dal 1° novembre, in buona sostanza, per le imprese italiane sarà più difficile usare contratti a tempo determinato. Per quelli di durata superiore ai dodici mesi, sarà obbligatorio indicare la causale; comunque non potranno essere rinnovati più di quattro volte(invece che cinque) e non potranno sforare il limite massimo di 24 mesi (e non più 36).
L’obiettivo è contrastare il precariato spingendo le aziende a stabilizzare i dipendenti. Secondo Confindustria e l’opposizione, in particolare il Pd, ci sarà l’effetto contrario e i precari di oggi diventeranno i disoccupati di domani. Per supportare la tesi, in questi giorni vengono enfatizzati i primi casi di persone che – precari da più di due anni, quindi non più “rinnovabili” – sono mandate a casa (o sono in procinto di esserlo) dai propri datori.
Un episodio è stato raccontato su Repubblica: Valeria, neo-mamma di 35 anni, lavorava per Anpal servizi, società pubblica controllata dall’agenzia Anpal che si occupa proprio di politiche del lavoro e aiuta i disoccupati a trovare un impiego. Valeria aveva un contratto a termine da agosto 2016. Viste le nuove norme, non potrà essere rinnovato: Anpal servizi – amministrata da Maurizio Del Conte, professore nominato da Matteo Renzi come responsabile delle politiche attive e tra gli autori del Jobs act – l’ha mandata a casa. Licenziata dal decreto Dignità? No, cacciata (o, meglio, non rinnovata) da Anpal Servizi che ha preferito privarsi di lei piuttosto che stabilizzarla. L’azienda in house (ex Italia Lavoro) era al centro del Jobs act: Renzi voleva trasformarla nel braccio armato contro la disoccupazione. Poi però non è riuscito nemmeno a garantire un posto fisso agli 800 precari che ci lavorano (su 1.300 dipendenti). Questi addetti lottano da tempo per ottenere la stabilizzazione; un anno fa era stata promessa almeno ai più “anziani”, ma – raccontano – si è bloccato tutto dopo 50 assunzioni.
Ieri il segretario Pd Maurizio Martina ha rilanciato su Twitter la notizia di Repubblica incolpando il governo per la perdita di lavoro della giovane mamma. A rispondergli è stata però la stessa Valeria: “Non giocate sulla mia pelle la partita tra Pd e M5S. Il Pd non è esente da responsabilità#jobsact. La soluzione è la stabilizzazione dei precari, per me e per gli 800 di Anpal servizi”. A questo intervento si sono aggiunti quelli dei colleghi di Valeria. Il tweet di Martina, insomma, si è rivelato un autogol.
Un’altra storia utilizzata dai critici del “decreto dignità” è avvenuta a Benevento, nello stabilimento dove Nestlé produce la pizza surgelata Buitoni. Venti lavoratori interinali non sono stati rinnovati alla scadenza del secondo anno: Nestlé ha ammesso di averli lasciati a casa per le nuove norme, tuttavia ha fatto sapere che in quel sito sono previsti nuovi investimenti e assunzioni. Sarà un’occasione per richiamare i somministrati cacciati? “Valorizzeremo le competenze maturate sul territorio”, dice Nestlé. Tradotto: forse riassumeranno loro, forse assumeranno altri. Comunque, resta il fatto che, anche in questo caso, se quei lavoratori non rientreranno in azienda, non saranno stati mandati a casa dal “decreto dignità” ma da scelte dell’impresa.
Il fatto che il limite massimo per i contratti a tempo determinato passi da 36 a 24 mesi non può di per sé giustificare un aumento della disoccupazione. Le aziende, una volta raggiunto il limite di due anni, avranno due opzioni:stabilizzare il dipendente o lasciarlo e prenderne un altro al posto suo. Questo significa che aumenterebbe il turnover ma sul piano della matematica non si tratterà di un posto di lavoro in meno, perché quella posizione resterà attiva, semplicemente sarà ricoperta da un’altra persona (ovviamente, nessuno vorrebbe essere il lavoratore sostituito). Fino a ieri, peraltro, tanti precari venivano messi alla porta al termine del terzo annoanziché del secondo: nessuno però attribuiva al limite di 36 mesi per i contratti a termine le cause della disoccupazione.
I critici del decreto spesso confondono gli effetti sul singolo contratto del nuovo limite di 24 mesi con quelli contenuti nelle stime dell’Inps inserite nella relazione tecnica: secondo il presidente Tito Boeri si perderanno 8mila occupati a termine ogni anno per i prossimi 10. La sua previsione si basa sul calcolo – desunto dall’analisi di casi precedenti di modifiche normative di portata simile – per cui, su una platea di 80mila lavoratori a termine in servizio da più di 24 mesi, il 10% non sarà stabilizzato né sostituito. E questo per i prossimi dieci anni.
Questo calcolo, pur con linguaggio burocratico, è stato smontato dal Servizio Bilancio della Camera, che ha fatto notare l’arbitrarietà dei parametri scelti e come il calcolo presupponga modifiche dei comportamenti degli attori in gioco (le imprese) difficilmente prevedibili a tavolino. Secondo i tecnici di Montecitorio, infine, la platea totale dei contratti considerata da Inps è la metà di quella reale. Senza contare che una perdita di 8mila posti su 4,5 milioni di contratti a termine interessati alle nuove norme stipulati nel 2017 rischia di essere un mero “rumore statistico”. Boeri ha comunque difeso il suo calcolo: “È persino ottimistico”.
"Eliminare le differenze tra sanità dei poveri e dei ricchi". Strepitosa Giulia Grillo, cosi il Ministro vuole cambiare la Sanità in Italia
Liste d'attesa, difformità tra una regione e l'altra. Soprattutto eliminare le differenze tra «sanità dei poveri» e «dei ricchi». Il piano del ministro Giulia Grillo
Nella sanità italiana ci sono «troppe difformità tra una regione all'altra» con «il rischio, e tante volte la realtà, di avere da una parte una Sanità dei poveri, dall'altra dei ricchi». Giulia Grillo, nella Relazione in Commissione affari sociali di Camera e Senato dello scorso 25 luglio, ha illustrato le linee programmatiche del suo dicastero. Il ministro ha puntato l'attenzione in particolare sulla «questione Sud». La sua relazione è partita dalla Costituzione, secondo cui «è compito della Repubblica tutelare la salute quale fondamentale diritto dell'individuo nell'interesse della collettività, indicando, già allora, come il nostro Servizio sanitario nazionale, nell'ambito delle sue competenze, debba perseguire il superamento degli squilibri territoriali nelle condizioni socio-sanitarie del Paese». Ma «proprio quest'ultimo si sta rivelando sempre più il problema di fondo che abbiamo davanti e che dobbiamo tutti insieme affrontare con energia e coraggio».
Troppo divario tra Nord e Sud
«Oggi, a distanza di quattro decadi, purtroppo, non possiamo né dobbiamo nasconderci che chi si è alternato alla guida del Paese non è riuscito a tener fede alle norme che sovraintendono al nostro sistema» ha spiegato Giulia Grillo. «La situazione la conoscete anche meglio di me. Troppe le difformità tra una Regione e l'altra e tra una parte del Paese (il Nord) e l'altra (il Sud). Con il rischio, e tante volte la realtà, di avere da una parte una Sanità dei poveri, dall'altra dei ricchi».
«Tutti devono potersi curare»
Oltre 5 milioni, ha appena stimato l'Istat, sono gli italiani in povertà assoluta, concentrati maggiormente nelle Regioni del Sud. Ed è proprio partendo da questo dato che Giulia Grillo ha dichiarato che «sono queste le fasce di popolazione che guardano con maggior speranza ad un reale e concreto universalismo perché loro, più di altri, rinviano o abbandonano le cure». E la «questione Sud» continua a restare attuale «in tutta la sua gravità, con le ricadute che tutti conosciamo per la popolazione in conseguenza della gestione e dell'organizzazione dei servizi». In territori, tra l'altro, «in cui la malavita e le organizzazioni mafiose si infiltrano facilmente, lucrando sulla salute dei cittadini».
«Riformare il sistema delle liste di attesa»
«È mia ferma intenzione» ha spiegato il ministro Giulia Grillo «proseguire il lavoro iniziato con l'invio della circolare trasmessa alle Regioni e Province autonome di Trento e Bolzano per conoscere la situazione reale delle cose. Da una prima valutazione dei dati a disposizione, ovviamente con i dovuti distinguo, si denota mediamente un forte sotto utilizzo dei processi di informatizzazione delle prestazioni». Tradotto, significa che «ancora troppo spesso, ed in particolare per i ricoveri in fase di elezione, la gestione delle prestazioni avviene per via cartacea creando i presupposti e i rischi di forti distorsioni». Su questo aspetto «l'impegno sarà massimo - garantisce Grillo - perché si tratta di una delle chiavi di volta per la corretta gestione delle liste d'attesa».
Un disegno di legge contro le aggressioni ai medici
Quanto al tema delle aggressioni ai medici «sarà presto oggetto di un disegno di legge che abbiamo allo studio col ministero della Giustizia», ha ribadito il ministro della Salute Giulia Grillo illustrando le linee programmatiche del suo dicastero alle Commissioni riunite Affari sociali di Camera e Senato. «Lo scorso 3 luglio ho insediato il Comitato per l'indirizzo e la valutazione delle politiche attive e per il coordinamento nazionale delle attività di vigilanza in materia di salute e sicurezza sul lavoro», ha ricordato il ministro, aggiungendo: «Anche in questo caso sono perfettamente consapevole che non si risolve con un tavolo il fenomeno, ahimè crescente, delle aggressioni al personale sanitario negli ospedali, nei pronto soccorso, in tutte le strutture a rischio, tema che sarà presto oggetto di un disegno di legge che abbiamo allo studio col ministero della Giustizia».
Ecco chi è Marcello Foa e perchè la Casta lo teme
Marcello Foa. Un presidente così la Rai non l’ha mai avuto. I suoi sostenitori dicono che per la prima volta c’è un giornalista-manager esperto di media, che ha guidato un gruppo editoriale (Corriere del Ticino, in Svizzera), fondato un osservatorio sui media e scritto libri sul rapporto tra informazione e
politica. I suoi detrattori osservano che ora alla guida della prima azienda culturale italiana, la Rai, c’è un sovranista convinto, che interviene come opinionista nella tv di propaganda di Mosca, Russia Today, che da anni sostiene la necessità di uscire dall’euro e che sui social network ostenta “disgusto” per come il Quirinale ha gestito le trattative tra i partiti dopo le elezioni e rilancia tutti i sovranisti più vocali, inclusa quella Francesca Totalo che ha creato la bufala della migrante camerunense Josefa che si è messa lo smalto prima di partire col barcone verso l’Italia.
Marcello Foa, 55 anni, è entrambe queste cose, erede di quella tradizione di giornalismo indipendente e conservatore che oggi difficilmente si riconoscerebbe nei sovranisti, ma anche assiduo frequentatore dei convegni dell’associazione di Alberto Bagnai, a/Simmetrie, di cui ora è vicepresidente, incubatore culturale di quel movimento anti-euro che poi la Lega ha assorbito. Ha lavorato a lungo per il Giornale prima di passare, nel 2011, al gruppo Corriere del Ticino.
Sul blog Il cuore del mondo, che tiene sul sito del Giornale, di cui è stato anche responsabile, riassume così la sua carriera: “Iniziai a Lugano, da studente lavoratore, alla Gazzetta Ticinese e poi al Giornale del Popolo. Non avevo tempo di andare all’università: studiavo a casa al mattino e al pomeriggio andavo in redazione, fino a tarda sera. Poi, quando avevo 26 anni, accadde il miracolo: fui assunto proprio al Giornale dal mio idolo e da subito con la carica di vice responsabile degli Esteri”. Poi continua a ricordare il rapporto reverenziale che aveva con il direttore, Indro Montanelli, “uomo libero che riteneva doveroso per un giornalista pensare con la propria testa, soprattutto quando è scomodo e rischioso uscire dal coro, perché solo così si onora davvero la professione”.
Nell’inseguire questa libertà Foa si è trovato spesso a mettere in discussione l’informazione cosiddetta tradizionale e per quei percorsi che i protagonisti rivendicano come coerenza e i critici come paradossi, si è trovato a contestare la propaganda e a frequentare chi è accusato di essere il professionista della nuova propaganda, tipo appunto Russia Today. Le sue analisi sulla guerra in Ucraina del 2014 – l’annessione della Crimea non è stata una aggressione di Mosca, ma la reazione al tentativo del soft power atlantico di spostare Kiev in orbita occidentale – è piaciuta anche a Beppe Grillo che l’ha rilanciata dal suo blog (e che sembra pensarla come Foa anche sull’euro, visto che ieri ha rilanciato la proposta di un referendum sull’uscita)..
La sintesi delle analisi di Foa su media e politica, al centro anche delle lezioni all’Università della Svizzera Italiana, è raccolta nei suoi due saggi dedicati agli “stregoni della notizia”. Al Giornale Foa era uno dei pochi che, già nel 2014, concordava con Claudio Borghi Aquilini, allora editorialista economico della testata in cui lavorava anche Foa e oggi responsabile economico della Lega.
Il primo incontro con Salvini si deve proprio a Borghi. A gennaio 2018 Borghi ha organizzato a Milano un convegno per presentare, tra l’altro, il suo progetto di Mini-Bot. Alla cena dopo i lavori ci sono anche Foa e Salvini. Borghi oggi ricorda: “Marcello è stato il primo a dire a Salvini che doveva smetterla con le felpe e mettersi la cravatta, se voleva essere credibile per il governo”.
Vittorio Malagutti ha ricostruito su L’Espresso la rete europea che sta costruendo Steve Bannon, l’ex consigliere di Donald Trump licenziato pochi mesi fa, in vista delle elezioni europee 2019. Foa, racconta L’Espresso, ha presentato il suo libro con Salvini in un evento organizzato dalla Onlus leghista Più voci (quella che ha ricevuto i 250.000 euro dell’imprenditore Luca Parnasi, arrestato per lo stadio della Roma) ed era tra i pochi ammessi a un incontro riservato tra Steve Bannon e Salvini lo scorso 8 marzo a Milano. Anche se L’Espresso non accusava Foa di alcuna scorrettezza, il giornalista-manager ha deciso di querelare il settimanale.
Chissà che presidente sarà in Rai. Nel suo blog Foa se n’è occupato di rado. A novembre 2017 se la prende per esempio con Report di Sigfrido Ranucci, per un tweet di lancio della puntata: “Affermare che la soluzione ai mali italiani è la costituzione degli Stati Uniti d’Europa, non ha nulla dell’inchiesta, è opinione; e forte, molto forte. Che sia pane per un quotidiano come Repubblica o il Fatto Quotidiano, ci sta. Che lo facciate voi è inaccettabile”. Ora potrà discuterne con Ranucci e con gli altri giornalisti Rai dalla poltrona della presidenza.
giovedì 26 luglio 2018
Lavoro, l'annuncio di Di Maio: " Incentivo a chi assume a tempo indeterminato e taglio del costo del lavoro del 10%"
"Stiamo valutando il bonus e quantificando quanto sarà l'incentivo per chi assume a tempo indeterminato. Ci sono 300 milioni di euro l'anno". Lo ha annunciato il vice premier e ministro per lo Sviluppo e il Lavoro, Luigi Di Maio, a In Onda su La7 sottolineando che l'incentivo "dovrebbe essere un abbattimento del 10% sul costo del lavoro".
Di Maio ha lamentato poi una "campagna di terrorismo psicologico contro il decreto dignità"., elencando: "Mi trovo con l'Inps che dice cose sulla perdita di posti di lavoro che non stanno nè in cielo nè in terra, Confindustria, le opposizioni che hanno iper precarizzato la vita dei giovani italiani... Ma andiamo...".
Grecia devastata, solo Giordano smaschera Saviano e la feccia buonista: “Dove sono le Ong? I greci vi fanno forse schifo perchè non sono clandestini'”
Mario Giordano per la Verità
Dicono che adesso l’ Europa è tornata amica della Grecia.Che è un po’ come dire che Attila è tornato amico dei prati all’inglese. Dove passa lui non cresce più un filo d’ erba, però, ecco, se ne dispiace molto. Anche l’ Europa, adesso, si dispiace molto perché la Grecia va a fuoco: prima l’ ha distrutta, saccheggiata, umiliata, spogliata.
L ‘ha messa in ginocchio. L’ ha privata, austerity dopo austerity, di ogni mezzo di difesa. L’ ha obbligata a tagliare la Protezione civile, ad affamare i vigili del fuoco, a rinunciare a mezzi efficienti perché lo spread vale più di tutto, il debito pubblico conta più della vita. E adesso, toh, l’ Europa all’ improvviso scopre un affetto infinito per quel Paese devastato e abbrustolito. Dice che bisogna superare «diffidenza e incomprensioni». Che bisogna ritrovare l’ umanità. E sarebbe anche bello crederci, davvero. Sarebbe bello illudersi. Se, nel frattempo, dalle parti di Atene, l’ umanità non fosse stata ridotta in cenere.
Qualcuno ha scritto che in Grecia, finalmente, l’ Europa ha mostrato il suo cuore, la sua anima. A noi sembra, piuttosto, che abbia mostrato la sua enorme coda di paglia. Il suo senso di colpa. Dove sarebbe tutta questa sensibilità del Vecchio Continente? Nel fatto che sono partiti un paio di Canadair dall’ Italia, qualche elicottero dalla Germania, un po’ di aerei cisterna dalla Croazia e dal Portogallo?
Toh guarda, si stupiscono i commentatori (come Ettore Livini su Repubblica), «non sono stati necessari interminabili vertici», non è stata consultata la Troika, non si è discusso sul costo del carburante necessario per far decollare due (ribadisco: due) Canadair dall’ Italia o un aereo cisterna da Zagabria mentre i bambini venivano ridotti a scheletri sulle spiagge di Mati. Macché: l’ hanno deciso subito. Pronti via. Non vi pare un gigantesco esempio di solidarietà? Davanti alla gente che moriva, pensate un po’, l’ Europa non ha nemmeno organizzato un vertice per chiedere ad Alexis Tsipras, in cambio di un paio di idranti, di cedere il Partenone a Berlino. Chi l’ avrebbe detto?
Capisco i colleghi, sia chiaro. Dopo tutto quello che abbiamo visto, forse, sarebbe sembrato loro naturale che di fronte a un’ emergenza senza precedenti, l’ Europa si fosse comportata come ha fatto finora. Una bella riunione, la consultazione della Troika, magari un’ analisi dei bilanci. Ci sono delle persone che bruciano come torce umane? D’ accordo, ma prima vediamo come sta messo il deficit/Pil. Intere città inghiottite dalle fiamme? Va beh, ma quanta fretta: non si può intervenire se prima non si riduce un po’ il debito pubblico.
E la Germania, che dalla Grecia si è portata via tutto, isole, aeroporti, aziende, forse anche le mutande dei guardiani dei musei, adesso si sente molto buona perché ha concesso qualche mezzo di soccorso, una roba che non si nega nemmeno ai peggiori delinquenti della storia. Che buoni questi tedeschi, non vi pare? Hanno ammazzato la Grecia ma ora vogliono salvare il cadavere dalle fiamme.
Si vede che sono contrari alla cremazione.
Fra l’ altro che la responsabilità di questo disastro sia per buona parte imputabile all’ Europa non lo diciamo noi, ma uno dei giornalisti più filo Bruxelles che ci siano, il vicedirettore del Corsera Federico Fubini, uno con cui ci siamo spesso trovati a polemizzare proprio per la sua cieca fiducia nelle capacità salvifiche dell’ Unione. In un articolo sul Corriere della Sera di ieri, Fubini ha spiegato che «il quattordicesimo pacchetto di austerità a primavera dell’ anno scorso» ha imposto un ulteriore «taglio al ministero della Protezione civile».
Per questo, ha raccontato, i vigili del fuoco hanno paghe da fame, si nutrono male, non sono in forma, tendono all’ obesità, sono poco preparati e peggio equipaggiati. Le squadre non hanno mezzi né formazione per affrontare le emergenze. Non ci sono elicotteri a sufficienza, né aerei antincendio e nemmeno piani di evacuazione. La Grecia è fragile perché è arrivata «prostrata a questo punto di svolta».
Però adesso l’ Europa mostra il volto amico. Pensate un po’ quanta generosità.
Non manda squadroni di piromani, come ci si potrebbe aspettare, né severi ragionieri che sorveglino i vigili del fuoco impegnati sul campo, caso mai sprecassero troppa acqua o consumassero le divise. Macché: manda due Canadair dall’ Italia e qualche altro mezzo spicciolo qua e là. Quando si dice gettare il cuore oltre l’ ostacolo. E pazienza se tutto questo avviene dopo 14 (quattordici!) piani di austerità, dopo la spoliazione programmata, il depauperamento scientifico della Grecia. E pazienza, soprattutto, se tutto questo avviene nel silenzio imbarazzato del belmondo in maglietta rossa: un bimbo greco andato arrosto forse non commuove come un bimbo africano immigrato. Nelle ciniche quotazioni della solidarietà un tanto al tweet, evidentemente, morire tra le fiamme vale meno che morire annegati.
E infatti gli intellò non si mobilitano. La solidarietà latita. Dove sei Roberto Saviano? Dove sei Gad Lerner? Dove siete Ong? Medecins sans frontières? Open Arms? Perché non vi indignate, nemmeno un po’, per la Grecia umiliata, offesa e bruciata? Perché non organizzate un bella campagna per ridare a questo antico Paese un po’ di dignità, o almeno qualche vigile del fuoco in più? Perché non vi commuovete per le immagini strazianti dell’ Attica? Eppure arrivano dalle stesse spiagge di quel Mediterraneo che tanto vi sta a cuore: perché questa tragedia, a differenza di quella degli immigrati, vi tocca così poco? Ah già, dimenticavo. La Grecia può contare sulla solidarietà dei leader dell’ Europa. Che prima le hanno fatto terra bruciata attorno e ora vanno tutti fieri con il sorriso a raccoglierne le ceneri. E la chiamano anima, questi figli di una Troika.
“Poche storie, se non avete i soldi andate in questa banca e indebitatevi”: terremotati, la vergognosa lettera della commissaria PD alla ricostruzione
La commissaria De Micheli chiede le imposte arretrate agli sfollati: “Ma potrete ottenere un prestito da Montepaschi”
di Paolo Bracalini per Il Giornale
Ad un anno esatto dalla scossa che distrusse Norcia, la neo commissaria per la ricostruzione del Centro Italia Paola De Micheli, deputata Pd già sottosegretario all’Economia, ha trovato un modo originale per celebrare la triste ricorrenza: una circolare con cui ricorda che dal 16 dicembre i terremotati dovranno ricominciare a pagare le tasse, finora sospese per effetto della moratoria fiscale disposta dal decreto sisma.
La De Micheli scrive ai sindaci dei paesi terremotati che «dal 16 dicembre prossimo, per i titolari di reddito di impresa, di lavoro autonomo e per gli esercenti attività agricole riprenderà la riscossione dei tributi non versati, nonché dei tributi dovuti dal 1 al 31 dicembre 2017», ma – specifica la sottosegretaria di Palazzo Chigi – «senza l’applicazione di sanzioni e interessi» per le tasse non ancora pagate. Insomma chi ha un negozio distrutto o un’attività paralizzata dal terremoto del 2016, non verrà sanzionato per non aver pagato le tasse, da cui era peraltro esentato in via provvisoria. Troppa grazia. Ma il governo ha un’altra chicca in serbo per le aziende e i lavoratori terremotati del Centro Italia. Non hanno soldi per pagare le tasse? Che si indebitino con le banche per saldare i tributi dello Stato (che però non ha ancora ricostruito neanche un decimo dei paesi distrutti, mentre addirittura solo il 9% delle macerie è stato rimosso).
Informa ancora la De Micheli che «l’Abi e la Cassa depositi e prestiti hanno sottoscritto una convenzione che contiene le linee guida per la concessione di finanziamenti agevolati, finalizzati proprio alle ripresa della riscossione tributaria nei territori delle regioni Abruzzo, Lazio, Marche e Umbria colpiti dagli eventi sismici a partire dal 24 agosto 2016». L’artigiano terremotato chiede un prestito per pagare le tasse, la Cdp garantisce il finanziamento che viene erogato dalla banca convenzionata, una dell’elenco allegato alla circolare (gli istituti sono Monte dei Paschi di Siena, Intesa San Paolo, e poi tre banche di credito cooperativo). Terremotati, dimenticati dallo Stato, e pure indebitati per pagare le tasse: il massimo della beffa. «È una presa in giro, non hanno idea di come viviamo qui» tuona Cristina Gentili, sindaco di Bolognola, comune terremotato dell’Appennino marchigiano. «Le attività che non sono ripartite dovranno pagare le tasse anche se non hanno incassato niente. Ma anche chi è rimasto aperto è in difficoltà, nessuno qui lavora più come prima. Stiamo ripartendo da zero. Per questo chiediamo che le tasse vengano cancellate per tre anni, visto quello che ci è successo e tutte le tasse che paghiamo. Per una volta il governo potrebbe regalare dei soldi agli italiani, invece che alle banche».
La sindaca ha parlato proprio ieri con la commissaria De Micheli, che ha spiegato di non aver deciso lei ma di essersi trovata già tutto predisposto dal predecessore Vasco Errani. «Per i terremotati è una vera doccia fredda, nonostante l’economia ancora in ginocchio, le macerie da rimuovere e gli oltre 30mila sfollati, lo Stato torna a batter cassa mentre tra le montagne del Centro Italia l’incubo di un nuovo inverno incombe» spiega Francesco Pastorella, coordinatore del Comitato Terremoto Centro Italia, in rappresentanza di 97 comitati presenti nelle quattro regioni colpite dal sisma. «È un duro colpo per chi nelle aree del cratere tenta di ritornare ad una normalità, quanto mai lontana ora che gli sforzi della ricostruzione non sono più alleggeriti dalle tasse».
M5S:‘Proporremo legge per trasparenza assoluta di finanziamenti a partiti e fondazioni’.
Il M5S proporrà in parlamento una legge per la trasparenza assoluta dei finanziamenti ai partiti e alle loro fondazioni.
Lo afferma il senatore 5Stelle Gianluigi Paragone in un video pubblicato su Facebook nel quale replica all’eurodeputato del Pd e vicepresidente del Parlamento europeo David Sassoli, il quale ha dichiarato che “è ora di fare chiarezza sulla piattaforma Rousseau. Rousseau si comporta come una fondazione legata a un partito politico e quindi deve essere soggetta al rispetto di vincoli di trasparenza.”
“Allora, al collega David Sassoli, voglio dire una cosa – prosegue Paragone – il bilancio dell’Associazione Rousseau è già pubblico, è già trasparente, a differenza di quello che non fanno le fondazioni legate ai partiti politici, almeno, non fanno fino a quando una nostra legge non verrà approvata”.
L’esponente pentastellato poi annuncia:
“Già, perché tra poche ore vi svelerò i contenuti di questa legge che abbiamo in mente di proporre al parlamento. Una legge che parla finalmente di trasparenza assoluta a certi finanziamenti, ai partiti politici e alle fondazioni legate ai partiti politici, e lì capiremo il Partito Democratico che cosa ha intenzione di dare e di fare”.
E aggiunge: “Quindi diamo due notizie precise a David Sassoli. La prima è che il bilancio dell’associazione Rousseau è trasparente, è pubblico, lo può prendere in qualsiasi momento, può leggerlo tranquillamente, non ci sono problemi”.
“In secondo luogo gli diamo quest’altra notizia: che il MoVimento 5 Stelle proporrà una legge per rendere trasparente ogni finanziamento che arriva ai partiti politici e alle fondazioni legate ai partiti politici,” conclude Paragone.
Guarda il video:
Quanti candidati a dirigere i tg Rai: Gabanelli, Gomez, Giordano, Del Debbio...
Sono ancora da sciogliere i nodi del presidente e dell'ad, ma già Salvini e Di Maio sono pronti a mettere le mani sui telegiornali. E impazza il totonomi...
Il totonomi della Rai continua ad essere una delle telenovele più appassionanti di questa stagione estiva della politica. Il primo nodo da sciogliere resta ovviamente quello dell'amministratore delegato. Nel vertice di ieri sera con il premier Giuseppe Conte e i ministri Giovanni Tria, Matteo Salvini e Luigi Di Maio, si sarebbe trovato l'accordo su Fabrizio Salini (Stand By Me), ritenuto dalla Lega troppo renziano, ma gradito sia al M5s che al titolare dell'Economia. In cambio, però, il Carroccio pretenderebbe naturalmente la presidenza, per la quale la candidata più gettonata è Giovanna Bianchi Clerici. Il problema è che i pentastellati la considerano eccessivamente schierata politicamente, per non parlare del fatto che è già stata condannata per danno erariale dalla Corte dei Conti nel 2013. E così riprendono quota anche le alternative: il berlusconiano Fabrizio Del Noce, ex direttore di Rai1 caro alla first lady leghista Elisa Isoardi, o addirittura Giovanni Minoli. Insomma, la partita dei vertici sembra ancora tutta da giocare.
Ma quella per la quale i leader politici non vedono l'ora di scendere in campo riguarda i direttori dei tg. In teoria, la nomina spetterebbe all'ad, ma si sa, la macchina dell'informazione crea consenso. E così per il Tg1 Salvini punterebbe su Gennaro Sangiuliano, attuale vice, uno dei primi a sdoganare il vicepremier con una serie di selfie, ma che vanta anche conoscenze accademiche in comune con il premier Conte. Ma la testata della prima rete interessa molto anche a Di Maio, pronto a far valere i suoi numeri in parlamento. E sul fronte pentastellato la girandola di nomi è più ampia: si va da Milena Gabanelli a Peter Gomez, da Alberto Matano (amico del deputato Vincenzo Spadafora) a Giuseppe Malara. Per il Tg2 si parla di Mario Giordano, apprezzato da entrambi i partiti, ma forse anche di Paolo Del Debbio, fatto fuori dalla nuova Mediaset anti-populista. Per il Tg3 la candidata gradita all'ala sinistra dei Cinque stelle sarebbe invece Federica Sciarelli, la storica conduttrice di Chi l'ha visto?.
Poltrone a disposizione
Infine ci sono da riempire anche le caselle del giornale radio, dei telegiornali regionali (che non dispiacciono alla Lega, soprattutto in vista delle prossime elezioni amministrative) e di Rai Sport. La fila di giornalisti che bussano alla porta, insomma, si allunga: e sono quasi tutti volti nuovi o quasi. Perché il governo del cambiamento non può che passare anche dalla televisione.
"Fuori dalle balle". Il Governo manda via i vertici renziani delle Ferrovie dello Stato
L’ennesimo rinvio è pronto a scattare, ma l’obiettivo è archiviare la pratica nei giorni immediatamente successivi. La delicata partita delle nomine sta per coinvolgere Ferrovie dello Stato.
L’assemblea in programma per oggi sarà con ogni probabilità rinviata. Il fatto è che ieri, sul tema, è intervenuto perentoriamente il ministro dei Trasporti, Danilo Toninelli (M5S), il quale ha deciso di azzerare il Cda del colosso di Stato dando il via alla decadenza. Insomma, ormai è fuori il renzianissimo ad delle Fs, Renato Mazzoncini, che di recente è stato rinviato a giudizio per una presunta truffa e che era stato confermato in fretta e furia dal Governo di Paolo Gentiloni nell’ambito della maxi fusione con l’Anas. Lo stesso Governo pentaleghista ha chiesto la convocazione di un’assemblea delle Ferrovie entro il 31 luglio. Insomma, al massimo entro martedì prossimo si dovrebbe sapere il nome del successore. In ballo, in quota Lega, resta il varesino Giuseppe Bonomi, già presidente di Sea e Alitalia. Ma secondo ragionamenti dell’ultima ora potrebbe essere nominato presidente, magari con qualche delega, più che Ad. Per quest’ultima poltrona circola con una certa insistenza il profilo di un interno “pesante”, ossia Maurizio Gentile, Ad della controllata Rete ferroviaria. In alternativa si fa il nome dell’attuale Ad di Trenitalia, Orazio Iacono, forte di buoni risultati quando si è occupato di trasporto regionale (tema caro a Lega a Cinque Stelle). Dall’assemblea prevista sempre oggi, inoltre, si attendono lumi sul nuovo vertice del Gse, la società che gestisce 16 miliardi l’anno di incentivi alla rinnovabili. Il tema è molto sensibile peri grillini. Ieri, non per niente, il vicepremier Luigi Di Maio è intervenuto a un convegno Anev-Elettricità futura annunciando che il Governo intende supportare al massimo il settore delle rinnovabili. E ha detto che in settimana ci saranno le nomine. In realtà, anche qui, non si esclude un rinvio, a quanto pare dettato dalla necessità di vagliare nel dettaglio i vari curriculum. Per il ruolo di presidente e Ad del Gse restano in campo le chance di Luca Dal Fabbro, ingegnere chimico, oggi nei Cda di Terna e Buzzi Unicem. Dal Fabbro, tra l’altro, è anche Ad della Grt Group, società svizzera che nei mesi scorsi ha annunciato investimenti in Italia per una serie di impianti di trasformazione della plastica in combustibile meno inquinante. Inoltre è vicepresidente del Circular economy network, a cui aderiscono società (vedi Hera) che prendono incentivi dallo stesso Gse. Un po’ più lenti, invece, potrebbero essere i tempi dell’Authority per l’Energia. In pole, per la presidenza in quota Lega, resta Paolo Arata, professore di ecologia.
martedì 24 luglio 2018
Ennesimo capolavoro di Di Maio: Sbloccati i 280 milioni per far ripartire i Centri per l'Impiego
Sono stati sbloccati 280 milioni per i centri per l’impiego.
Lo ha fatto sapere durante l’incontro con gli assessori regionali giovedì scorso.
Il ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico ha spiegato che saranno trasferite le risorse del residuo 2017 (45.000.000 euro) e del 2018 (235.000.000 euro).
Si tratta, ha dichiarato Di Maio dopo l’incontro, di “un chiaro segnale per dimostrare la volontà di essere in prima linea con le amministrazioni regionali per far funzionare i Servizi per il Lavoro”.
Nel frattempo il governo continua a lavorare su tutti i fronti: imprese, partite Iva, lavoratori e pensioni. Lo ha detto il vicepremier rispondendo ad una domanda sulle voci secondo cui sarà ampliata la platea di coloro che potranno accedere al forfait per le partite Iva alzando il tetto a 80 mila euro.
Quanto al Decreto Dignità, Di Maio ha ribadito che “noi come gruppo parlamentare del Movimento in parlamento non siamo disposti ad arretrare sui principi di questo provvedimento”.
E ha affrontato la questione della Cassa depositi e prestiti, che sarà affrontata entro la prossima settimana: “La vocazione di Cassa Depositi e Prestiti resterà quella classica, non la vogliamo far entrare nel perimetro dell’attività bancaria che porterebbe delle storture. Tuttavia, nel nostro programma c’è la banca degli investimenti e lo faremo anche nell’ambito della mission di Cdp,” ha detto.
Nell’intervista a Maria Latella su Sky Tg24, il leader 5Stelle ha anche parlato della vicenda dei fondi della Lega, spiegando che a suo parere la richiesta del Carroccio di avere un incontro con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella è “legittimo”.
“A maggior ragione se non si parla di magistratura. Non ho alcun imbarazzo rispetto a questa vicenda della Lega anche perché so che riguarda i tempi di Bossi, non di Salvini,” ha aggiunto.
“Stipendi mostruosi a vita per far nulla o al massimo raccontare balle” scandalo in Rai, Milena Gabanelli svela le folli prebende dei nullafacenti della tv di Stato
Milena Gabanelli per “Dataroom – Corriere della Sera”
Svincolata dai partiti, doveva decollare tre anni fa. Invece la più grande azienda culturale del Paese è rimasta nel parcheggio, invischiata nelle clientele e nelle inefficenze di sempre.
Mamma Rai impiega 13.058 dipendenti, di cui 1.760 giornalisti, suddivisi in 8 diverse testate: Tg1, Tg2, Tg3, TgR, Rainews 24, Il Giornale Radio, Rai Parlamento e Rai Sport. Il contratto giornalistico Rai è il più «blindato» d’ Italia: il costo azienda medio annuo è di 200.000 euro per ciascuno dei 210 capiredattori, 140.000 euro per i 300 capiservizio, 70.000 euro per i neoassunti.
Nel mondo, nessuna Tv pubblica ha tanti telegiornali nazionali. Un’ anomalia che risale ai tempi della «lottizzazione»: a ogni partito la sua area di influenza. Negli anni ha generato costi enormi poiché ogni testata ha un direttore, i vicedirettori, i tecnici, i giornalisti. E tutte le testate a coprire lo stesso evento.
Che senso ha, visto che ogni rete ha già gli spazi dedicati agli approfondimenti e ai talk, proprio per rappresentare le diverse letture dei fatti? La Bbc, una delle più grandi e influenti istituzioni giornalistiche al mondo, diffonde in Gran Bretagna un solo Tg: BBC news.
La Rai, con le tre testate nazionali, realizza ogni giorno oltre 25 edizioni di Tg; in Francia e Germania le edizioni quotidiane sono 7, nel Regno Unito e in Spagna 6. All’ offerta ipertrofica si aggiunge il canale Rainews 24, che trasmette notizie 24 ore al giorno. Abbiamo la più grande copertura informativa d’ Europa e un esercito di giornalisti, eppure, nonostante i telespettatori siano inesorabilmente in calo perché si informano sul mondo digitale, la Rai non ha un sito di news online.
Poi c’ è il tema delle sedi regionali: i 660 giornalisti fanno capo alla direzione Tgr, mentre le 22 sedi, con altrettanti direttori, che si occupano solo dei muri e dei tecnici, fanno capo a una fantomatica Direzione per il coordinamento delle sedi regionali ed estere.
Gli edifici sono faraonici, con interi piani inutilizzati, ma la qualità della cronaca locale non è sempre brillante: potenzialità enormi, inefficienza cronica. Ma, essendo i Tg regionali luoghi in cui sindaci e governatori esercitano la loro influenza, oltre che bacino di consenso per il potente sindacato Usigrai, si tira a campare.
Qualche esempio. In Emilia Romagna non c’ è una buona copertura del segnale e, in alcune zone, si vede il Tgr Veneto o il Tgr Marche; è presente una obsoleta «esterna 1» per le dirette, un mastodonte costoso usato solo per la messa della domenica, con una squadra di 5 persone che, per ragioni sindacali, non può fare altro quando il mezzo è fermo.
Al Tgr Lazio regna il degrado: dalle luci al neon fulminate alle cuffie della radiofonia fuori uso; tutti i giornalisti stanno a Saxa Rubra, nessun corrispondente dalle province. A Torino, per poter usare un mezzo satellitare leggero, adatto alle dirette, la Tgr deve chiedere l’ assenso a 4 diversi responsabili, una procedura che non si adatta ai tempi delle news. In Puglia, i due redattori territoriali hanno la telecamerina in dotazione, ma non la usano perché il sindacato non vuole.
A Sassari, 4 specializzati di ripresa non escono con la troupe, non guidano la macchina e stanno in studio, per quei due movimenti di camera che potrebbero anche fare i tecnici. Il caporedattore non può decidere sul loro utilizzo, perché dipendono dal direttore di sede. In Sicilia, gli impiegati di segreteria sarebbero disponibili e qualificati per archiviare e metadatare le immagini, ma non hanno accesso al sistema.
La Tgr Lombardia (con 50 giornalisti) è quella che collabora di più con i Tg nazionali; però Tg1, Tg2, Tg3, Rainews e Rai Sport hanno comunque tutti i propri giornalisti a Milano. Il materiale grezzo viene buttato, perché nessuno lo cataloga. Poi c’ è un aspetto che la dice lunga sulle competenze dei dirigenti: le testate nazionali e quelle regionali sono state digitalizzate con sistemi che non comunicano fra loro, per cui è difficile lo scambio di immagini.
Il Consiglio d’ amministrazione insediato nel 2015 è partito in quarta dando vita a Ray Play, ma la mission era proprio quella di rendere più efficiente la TgR, riorganizzare l’ offerta informativa nazionale e colmare il gap digitale. In questi 3 anni, il Cda è riuscito a far naufragare tutti i progetti.
Incluso quello per la nascita del sito unico di news online, già sviluppato dalla Direzione Digital e con la formazione presso le redazioni regionali già avviata (oggi sei regioni hanno il loro sito). Il motivo? Prima di dar vita a una nuova testata, bisognava ridurre il numero di quelle già esistenti.
Sta di fatto che il sito nazionale esistente è dentro a Rainews 24 e produce un traffico irrilevante. Questa è la classifica Audiweb degli utenti unici giornalieri, nell’ ultima settimana di giugno: RaiNews 95.000, TgCom 967.000, Corriere della Sera 1.300.000, Repubblica 1.400.000.
In sostanza tutti i cittadini sono obbligati a pagare il canone (1 miliardo e 700 milioni l’ incasso del 2017), ma chi si informa soltanto online non ha un servizio pubblico degno di questo nome. In compenso, lo stesso Cda ha portato avanti uno studio di fattibilità di un nuovo canale tradizionale in lingua inglese.
Ad occuparsene in prima persona la presidente Monica Maggioni, a fine mandato, e quindi in cerca di una futura direzione.
Questa è la Rai, che attende il prossimo giro di giostra. Il capitale umano che lavora ai piani bassi, dove si realizza il prodotto, ha bisogno di una forte spinta; speriamo che la giostra sia un «calcinculo». Con un management esperto e libero dai condizionamenti della politica, potrebbe uscirne un’ azienda leader in Europa.
Il M5s vuole cambiare il codice della strada: addio patente a chi guida con lo smartphone e trasparenza sulle multe
Trasparenza sulle multe da un lato. Dall'altra stretta sulla velocità con autovelox anche in città. Sarà introdotto il doppio senso ciclabile
In Parlamento proporremo tramite emendamenti misure come trasparenza sui proventi delle multe, aumento delle sanzioni per l'uso di smartphone alla guida prevedendo il ritiro della patente, l'introduzione del doppio senso ciclabile e nuove norme per il controllo della velocità in città». Lo annunciano i parlamentari del Movimento 5 Stelle Diego De Lorenzis, vice presidente della Commissione Trasporti della Camera ed Emanuele Scagliusi capogruppo pentastellato in Commissione, commentando quanto sta emergendo al convegno Sicuri in Città in corso alla Camera. «Sono queste le principali proposte parlamentari che lanceremo come gruppo del Movimento 5 Stelle in occasione della prossima discussione del ddl annunciato dal Ministro dei Trasporti Danilo Toninelli dedicato alla sicurezza stradale in ambito urbano» continuano De Lorenzis e Scagliusi.
Le novità: addio patente a chi guida con lo smartphone
«Serve trasparenza vera sui proventi delle multe, che vanno realmente destinati per il 50% ad illuminazione, piste ciclabili, messa in sicurezza strade, manutenzione stradale , segnaletica e prevenzione» spiegano gli esponenti pentastellati. «Altra misura fondamentale è l'aumento delle sanzioni per l'uso di smartphone alla guida prevedendo il ritiro della patente come già proposto e approvato nella scorsa legislatura in un ramo del parlamento. È una misura fondamentale richiesta da chi opera ogni giorno sulla strada per garantire la nostra sicurezza», continuano i parlamentari pentastellati della Commissione Trasporti.
Autovelox in città e norme 'salva-ciclisti'
«Per garantire ancora più sicurezza e una mobilità dolce in ambito urbano va infine rivista la normativa sul controllo della velocità in ambito cittadino, oggi la norma vieta l'installazione di autovelox in aree urbane dove spesso molti conducenti di auto mettono a rischio l'incolumità propria e altrui non rispettando i limiti di velocità che garantiscono sicurezza», spiegano De Lorenzis e Scagliusi. «Tramite un nostro emendamento proporremo poi una norma sul doppio senso ciclabile, questo dopo che tante città, italiane e estere, hanno già introdotto con successo questa modalità» spiegano i pentastellati. «Siamo certi che su questi provvedimenti troveremo un'ampia maggioranza parlamentare che andrà a migliorare il già ottimo testo annunciato da Toninelli» concludono De Lorenzis e Scagliusi.
Altra promessa mantenuta! Il M5S blocca la TAV: "Enorme sperpero di soldi pubblici"
Il ministro mette una pietra sopra la linea veloce che avrebbe dovuto collegare Italia e Francia: «Nessuno si azzardi a firmare l'avanzamento dell'opera»
Per l'alta velocità Torino-Lione «è stato enorme lo sperpero di danaro pubblico per favorire i soliti potentati, certe cricche politico-economiche e perfino la criminalità organizzata». Lo sostiene il ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli, sottolineando che «quando studio dossier come quello della Tav Torino-Lione non posso che provare rabbia e disgusto per come sono stati sprecati i soldi dei cittadini italiani. Ricordate quel 'prenditore' – scrive l'esponente del Movimento 5 stelle su Facebook – che al telefono diceva 'ce la mangiamo io e te la torta dell'alta velocità'? Bene, è stato condannato in primo grado per concorso esterno in associazione mafiosa nell'ambito di una inchiesta su una cosca della 'ndrangheta che aveva messo le mani sugli appalti per i lavori preliminari del Tav».
Cantieri fermi
Il ministro mette in chiaro come le sue parole segnino concretamente un brusco stop ai lavori: «Adesso nessuno deve azzardarsi a firmare nulla ai fini dell’avanzamento dell’opera – prosegue Toninelli – Lo considereremmo come un atto ostile. Questo governo, statene certi, ha messo fine alle mangiatoie e ai comitati d’affari. Le opere si fanno se servono ai cittadini, non a chi le costruisce. Agiamo con un solo obiettivo: migliorare la qualità degli spostamenti e quindi della vita degli italiani. Se non lo sapete già, vi dico che la parte internazionale della Torino-Lione in teoria dovrebbe costare complessivamente 9,6 miliardi, suddivisi fra Unione europea al 40%, Italia al 35% e Francia al 25%. Qualcosa, per la verità, si è provato a risparmiare, ma già nel 2007 c’erano importanti economisti e Centri studi che prevedevano una spesa finale tra i 17 e i 20 miliardi di euro. Certificati poi dalla Corte dei Conti francese che, nell'agosto del 2012, indicò la colossale cifra di 26,1 miliardi, citando le ultime stime del Tesoro transalpino. Una enormità! A seguito dei primi accordi, il costo dell'opera risultò particolarmente gravoso per il nostro Paese, malgrado insistano sull’Italia soltanto 12,5 chilometri dei 57,5 del tunnel di base del Moncenisio. Uno degli aspetti più scandalosi sta proprio lì: i nostri governanti del tempo, stiamo parlando dei primissimi anni Duemila, decisero di accollarsi la parte maggiore delle spese per convincere la Francia, che era giustamente riluttante rispetto alla costruzione dell’opera. Anche perché negli ultimi venti anni lo scambio di merci tra Italia e Francia ha avuto una discesa costante».
lunedì 23 luglio 2018
L'annuncio di Di Battista che manda i fan in delirio: "A Dicembre torno.."
In diretta Facebook da Città del Messico la difesa del M5s su due temi caldi: Tap e Tav. Che nessuno sta fermando (come promesso in campagna elettorale)
MESSICO - «A dicembre torno, vedremo quello che succederà». Lo dice Alessandro Di Battista in diretta Facebook da Città del Messico, dove si trova insieme alla sua compagna Sarah e al figlio Andrea. «Sono sempre in contatto con Luigi, ci scriviamo tutti i giorni, il mio supporto anche dietro le quinte ce l'ha sempre, anche se non ne ha bisogno» ha spiegato l'esponente del Movimento 5 stelle. «Invito tutti i ministri del Movimento 5 stelle ad avere il coraggio di Luigi. L'importante è avere coraggio». Prima dell'ennesimo endorsment al governo Lega-Movimento 5 stelle, Di Battista è voluto intervenire nella polemica lanciata in giornata dal presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, che ha voluto ricordare alla ministra Barbara Lezzi di quanto proprio l'attuale reporter annunciò che «con il Movimento al governo» il Tap sarebbe stato bloccato «in due settimane». Ma ora il M5s al governo c'è, ma i lavori per il gasdotto proseguono.
«La Tav e la Tap sono opere stupide»
Alessandro Di Battista ribadisce la sua posizione: «La Tav e la Tap sono opere stupide». L'ex deputato pentastellato risponde così al presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, che ha chiesto il suo aiuto per quanto riguarda la Tap: «Con il massimo rispetto, io la faccia ce l'ho messa per 5 anni, forse tu col Pd l'hai anche un po' persa. Emiliano fa anche un po' il paraculo, ci sono ministri che si occupano di questo, io sto facendo altro. Sono boutade un po' da paraculo quale è lui, un po' è stato sgamato ultimamente». Poi l'intervento sulle due grandi opere: «Io sui progetti Tap e Tav sapete cosa penso: ci sono i ministri, diamogli un po' di tempo e vedrete che queste opere stupide verranno affrontate nel modo giusto ma questo è compito dei ministri non mio altrimenti facevo il ministro e non questa esperienza che sto facendo e che mi piace molto», ha sottolineato Di Battista, commentando anche il litigio in conferenza stampa tra la ministra del Sud Barbara Lezzi (M5s) ed Emiliano: «Barbara è stata bravissima, lo ha messo al suo posto».
PD e FI stanno morendo: entrate sempre più scarse e flop delle donazioni private
Spese ridotte del 75% in 5 anni, dimezzate le voci relative al personale e agli stipendi. La crisi finanziaria deriva dalla fine del finanziamento pubblico alla politica e i versamenti privati ancora troppo esigui, nonostante i forti incentivi fiscali
I partiti italiani sono in bolletta. I motivi sono sostanzialmente due: da un lato l’abolizione del finanziamento pubblico, che risale a qualche anno fa, dall’altro il clamoroso flop delle donazioni da parte dei cittadini.
Il dato emerge dal rapporto Openpolis-Agi dal titolo “Partiti in crisi – Analisi dei bilanci delle forze politiche tra 2013 e 2017”.
Le riforme degli anni 2012-14 avevano cercato di spingere i partiti a finanziarsi attraverso donazioni private (le cosiddette erogazioni liberali). Per incentivare tali versamenti, da parte di cittadini e imprese, la legge aveva previsto anche delle agevolazioni fiscali. Ma la tendenza negativa negli anni successivi è stata chiara. In particolare tra 2014 e 2016, i contributi da persone fisiche sono calati del 38%, quelli da persone giuridiche del 67%. Nel 2017 c’è stata una prima inversione di tendenza sulle donazioni da persone fisiche (salite a circa 15 milioni di euro), mentre prosegue il trend discendente per i contributi da aziende e altri enti (scese attorno a quota 700 mila euro).
Per partiti diventa fondamentale disporre di eletti ai diversi livelli, soprattutto in Parlamento. Buona parte dei finanziamenti privati da persone fisiche, infatti, sono versati dagli stessi parlamentari ed eletti al partito di appartenenza. Si tratta della quota di indennità versata come contributo al partito, spesso prevista anche da statuti e regolamenti interni. I contributi dei parlamentari possono essere portati in detrazione come le altre donazioni per i partiti iscritti nel registro. Si tratta quindi agli effetti di legge di un finanziamento privato, ma non va trascurato che non è una semplice donazione, ma un contributo calcolato rispetto a un’indennità erogata dallo Stato o dalla Regione. Non è quindi irragionevole ipotizzare che indennità e rimborsi vengano mantenuti all’attuale livello anche allo scopo di finanziare partiti e movimenti.
Senza il contributo di parlamentari, consiglieri regionali e altri rappresentanti nelle istituzioni, le donazioni da privati sarebbero ancora più esigue di quanto visto in precedenza, e ciò comporterebbe ancora più difficoltà nel far quadrare i bilanci. Nel caso di Sel e della Lega Nord, la quasi totalità delle donazioni da persone fisiche nel 2017 è rappresentata dai contributi degli eletti. A seguire, Scelta civica (83,9%), Fratelli d’Italia (72%), Alternativa popolare (70,7%). Per Partito democratico e Forza Italia la percentuale di incassi dagli eletti si aggira attorno ai due terzi delle donazioni da persone fisiche complessive (rispettivamente 67,3% e 66%). La percentuale di contributi da eletti sul totale è inferiore al 50% nel caso del Partito socialista italiano (42%) e Rifondazione comunista (20,38%).
Il tesseramento ormai non conta quasi più nulla. Dai dati di Openpolis circa il 4,5% delle entrate dei partiti nel 2017 deriva dalle quote degli iscritti. Una cifra che però in termini assoluti è diminuita nel tempo.Tra i principali partiti a livello nazionale, solo per pochi le entrate dagli iscritti costituiscono una quota rilevante dei proventi. Tra questi spicca Fratelli d’Italia, che nel 2017 ha raccolto dal tesseramento circa 380 mila euro, pari al 29,5% delle sue entrate caratteristiche. Gli aderenti a Forza Italia hanno contribuito con le loro quote di iscrizione al 12% dei proventi (419 mila euro su quasi 3,5 milioni). Da segnalare, tra i partiti minori, il caso del Psi che raccoglie quasi la metà delle sue entrate dal tesseramento (282 mila euro su 578 mila).
Per due dei partiti maggiori, come Pd e Lega, la quota di proventi dagli iscritti è rispettivamente lo 0,29% e lo 0,26%. Cifre irrisorie anche in valore assoluto (51mila euro il Pd, 7mila la Lega Nord). La ragione è che entrambe le formazioni politiche adottano modelli di finanziamento in base ai quali sono le strutture locali (sezioni, circoli, federazioni provinciali ecc.) a trattenere gran parte dei proventi delle tessere. Un aspetto essenziale, di cui va necessariamente tenuto conto nel leggere i bilanci delle forze politiche.
Se calano le entrate giocoforza devono calare anche le spese. E così i partiti tagliano il più possibile. Tra il 2013 e il 2017 le uscite dei partiti sono calate del 75% (da 129 a 31 milioni). Il taglio maggiore riguarda gli acquisti di beni, scese di oltre il 90%, poi vengono i servizi, passati da quasi 40 milioni di euro a circa 11 (-72%). Fortissime riduzioni di spesa anche per il personale, da 19,6 a 9,4 milioni. La voce “stipendi” in cinque anni è passata da 14,5 a meno di 7 milioni all’anno (-53%).
"Di Maio? E' il simbolo del cambiamento" Così un giornalista elogia il ministro del M5S
(di Maurizio de Caro – affaritaliani.it)
Elogio di un ragazzo comune. Luigi Di Maio è giovane e di bell’aspetto, già per questi motivi rappresenta un’anomalia nel sistema politico italiano, certo non basta per governare un paese ma l’effetto simpatia aiuta, la giovinezza irrita lo sguardo degli anziani.
Non ha un cv adeguato (come molti ministri degli ultimi governi), sbaglia qualche volta i congiuntivi, ha un linguaggio semplice e contraddittorio, spesso cambia parere e alleati, e questo è nella normalità della politica, ma intanto continua a sorprenderci. La fortuna aiuta gli audaci ma questo piccolo eroe ha saputo reggere carichi istituzionali e cariche politiche al di sotto dei 30 anni senza battere ciglio, allora è solo l’incoscienza dell’età o c’è qualcosa che ancora non possiamo valutare, una capacità in potenza ancora tutta da esprimere.
Non è laureato, come Veltroni, D’Alema e tanti altri, ha fatto lavori umili e questo gli fa solo onore, attraversa le tempeste sorridendo e macina consensi con una leggerezza sorprendente. Ha costruito un’alleanza creativa e spericolata con un suo ex acerrrimo nemico, ha finalmente eliminato la dicotomia dx/sx, perché il suo movimento è tutto questo e il futuro di tutto questo, ed è a tutti gli effetti la vera novità di un paese incapace di esprimere cambiamento, almeno in politica.
E’ il cambiamento perché non è figlio di nessuno, parente di qualcuno, amico del giaguaro, è un normalissimo ragazzo meridionale con tanta voglia di fare e molta confusione che ha saputo intuire il sentimento del paese, l’ha interpretato e rappresentato come l’uomo qualunque, ma intendiamoci pregi e difetti, non del qualunquismo ma dell’uomo qualunque. Migliorerà, vedrete perché ha dalla sua il tempo che i dinosauri uniti alla deriva vedono scemare, continua a usare il linguaggio della strada che non piace nel talk show, ma è apprezzato in cabina, ed ha trovato il format perfetto con Salvini: un governo che è maggioranza e opposizione al contempo, rivoluzione e restaurazione. Meglio di così.
Gli altri si limitano ad elidersi a vicenda rincorrendo populismi, antifascismi e “l’Europa ce lo chiede”,sono automobili di cilindrate molto diverse, sono tempi e modalità d’azione incompatibili, Luigi Di Maio ha capito perfettamente lo Zeitgeist, lo spirito del tempo,perché ne è il prodotto più avanzato e semplice, votando lui lo stramaledetto popolo, vota se stesso, come in uno specchio magico che riflette i nostri pregi ma dove cerchiamo di attenuare i nostri difetti, una sintesi antropologica perfetta.
Diamo credito all’ignoto,invece che celebrare l’insipienza diffusa e nota,il birignao,la spocchia e la retorica delle anime belle,facciamo un bel progetto di rimozione generale delle solite facce e dei soliti videogerarchi che hanno occupato ogni secondo della comunicazione pubblica e privata per raccontarci che questo giovane vicepresidente del consiglio è peggio di Himmler, più fascista di Starace, e soprattutto un pericolo per le loro rendite di posizione. Oggi voglio celebrare un ragazzo normale,uno che ce l’ha fatta, contro tutti e contro tutto,mentre il fuoco concentrico che cerca di abbatterlo diventa sempre meno pericoloso e inutile,mi sembra di vederlo sorridere,i suoi nemici non hanno capito che quel sorriso dovranno sopportarlo per molti,molti anni ancora.
"Abbiamo scoperto il più grande scandalo di sempre" la denuncia del M5S censurata da tutti i media
Opere pubbliche, M5S Puglia: ‘Abbiamo fatto luce su uno dei più grandi scandali di sempre’
“Dopo quasi un anno di approfondimenti e indagini, il M5S Puglia ha fatto luce su uno dei più imponenti scandali riguardanti la realizzazione di un’opera pubblica avvenuti in Italia: sto parlando della realizzazione della nuova sede del Consiglio regionale”.
Lo ha denunciato su Facebook l’esponente pentastellata pugliese Antonella Laricchia, la quale ha spiegato che si tratta di un’opera non ancora terminata dopo 15 anni di attesa e la cui entità dei lavori è passata da 39,5 milioni a 95 milioni.
Secondo Laricchia questo è uno “spreco gigantesco per cui adesso chiederemo giustizia alle autorità a nome di tutti i pugliesi”.
La costruzione della nuova sede del Consiglio regionale pugliese inizialmente, si parla del 2003, era costata 39,5 milioni. Nei sette anni successivi, però, sono state aggiunte al progetto delle varianti che hanno aumentato l’entità dei lavori di 27 milioni di euro.
Per poi aumentare di altri 27 milioni dopo il 2012. Totale: 95 milioni di euro, ovvero 55 in più rispetto a quanto previsto inizialmente (il 240% in piú).
I pentastellati pugliesi hanno indagato sui motivi dell’incremento dei costi e hanno scoperto, ad esempio, che “nella 5a variante si decide di sostituire delle plafoniere a neon con delle plafoniere a led. Scelta legittima se non fosse che si sceglie inspiegabilmente di acquistare delle plafoniere ‘esclusive e ricercate”’ al costo di 637€ cad.”. Eppure, ha osservato Antonella Laricchia, “plafoniere con prestazioni illuminotecniche identiche sul mercato avrebbero avuto un costo che oscilla tra i 130-150€”.
Secondo il M5S la responsabilità di tutto ciò è degli esponenti dei vecchi partiti sia di destra che di sinistra come Raffaele Fitto, Nichi Vendola e Michele Emiliano.
“Il M5S Puglia – ha fatto sapere Laricchia – presenterà un esposto alla Corte dei Conti, all’Anac e alla Procura della Repubblica e una mozione urgente per fermare il pagamento delle parcelle dei progettisti per gli ultimi 4 milioni circa rimasti e recuperare gli 8 milioni già erogati”.
domenica 22 luglio 2018
Travaglio, la strepitosa lezione a Roberto Saviano: “I ministri della malavita? Quelli che hanno infestato l’Italia fino a quattro mesi fa”
I MINISTRI DELLA MALAVITA
di Marco Travaglio per il Fatto Quotidiano
Tanto per ricordarci chi ci ha governati fino al 4 marzo, Luciano Violante replica su Repubblica ai severissimi giudizi della Corte d’assise di Palermo, nella sentenza Trattativa, sui suoi 16 anni di silenzio a proposito del generale Mario Mori, che nell’estate ’92 gli propose un tête-à-tête con Vito Ciancimino (con cui stava trattando) che lui, presidente dell’Antimafia, rifiutò, ma poi si scordò di avvertirne la magistratura. Anche dopo il ’97, quando Mori, “costretto“ dalle rivelazioni di Giovanni Brusca, confessò la trattativa al processo per le stragi del ’93. Testuale: “All’epoca avevo cose più importanti che sentire Brusca e Mori ai processi e non mi occupavo di antimafia, cercavo di fare nel miglior modo possibile il presidente della Camera”. Il perfetto presidente della Camera, già presidente dell’Antimafia, legge sui giornali che Brusca e Mori rivelano la trattativa fra Stato e mafia avviata nel ’92 dal Ros e che fa? Pensa che non sia il caso di precipitarsi dai giudici a raccontare quanto gli disse Mori dei suoi colloqui con Ciancimino, perché “ha altro da fare”. Cioè inciuciare col centrodestra con la famosa riabilitazione dei “ragazzi di Salò” che contribuì a oliare gli ingranaggi della Bicamerale e a riesumare l’appena sconfitto B. come padre costituente. La prova generale dell’inciucio si era svolta nel ’95,quando centrosinistra e FI avevano votato insieme la prima controriforma bipartisan della giustizia: la legge “manette difficili”, molto attesa non solo dai mazzettari di Tangentopoli, ma anche da Cosa Nostra. Tant’è che – lo conferma la sentenza Trattativa – Dell’Utri ne teneva costantemente informato Vittorio Mangano, storico trait d’union fra mafia e mondo berlusconiano.
La schiforma, osteggiata dall’Anm, da pochi giornalisti (fra cui chi scrive) e da pochissime forze politiche (la Lega di Bossi e i Verdi), era figlia del decreto Biondi, varato il 14.7.94 da B. per salvare dalla galera il fratello e gli altri manager Fininvest che avevano corrotto la Guardia di Finanza, e poi ritirato a furor di “popolo dei fax” su richiesta di Bossi e Fini. Bobo Maroni, ministro dell’Interno, denunciò di essere stato tenuto all’oscuro del contenuto del decreto e delle sue conseguenze (notissime invece a Mangano). Non solo la scarcerazione di centinaia di tangentisti, ma anche i danni irreparabili alle indagini di mafia grazie a un codicillo che – si legge nella sentenza – gli aveva segnalato il procuratore di Palermo Gian Carlo Caselli: quello che imponeva ai pm di svelare agli avvocati i nomi dei mafiosi indagati, vanificando la segretezza delle indagini.
I mafiosi si allarmarono per lo stop: Brusca spedì Mangano due volte a chiedere spiegazioni a Dell’Utri, nella sua villa di Sala Comacina. Lo raccontò nel ’97 ai pm Salvatore Cucuzza, reggente pentito del clan di Porta Nuova (in tandem con Mangano). L’amico Marcello lo rassicurò: tutto il peggio del decreto sarebbe stato riversato in un ddl che sarebbe passato nel gennaio ’95. Mangano mostrò a Cucuzza il testo della “riforma” che Dell’Utri gli aveva passato in anteprima. Poi però il primo governo B. cadde per mano leghista, rimpiazzato dal governo Dini. E fu il centrosinistra a levare le castagne dal fuoco a Cosa Nostra e a B., approvando il ddl il 3.8.95, sempre coi voti di FI. Le norme pro mafia che stavano a cuore a Mangano e ai suoi boss erano quattro. 1) Abolito l’articolo 371-bis del codice penale, la norma anti-omertà voluta da Falcone per arrestare in flagranza i testimoni falsi o reticenti. 2) Abolito l’arresto automatico per associazione mafiosa. 3) Accorciati i termini massimi di custodia cautelare anche per la mafia. 4) Ridotti al lumicino gli arresti per pericolo di fuga o di inquinamento probatorio. “Il partito dei giudici è finalmente sconfitto”, esultò il lottatore continuo Luigi Manconi. Tripudiarono pure i boss, che avevano interrotto le stragi per dar tempo a B. e Dell’Utri di mantenere le promesse. Ed ebbero conferma della loro attendibilità grazie al fondamentale apporto del centrosinistra. Come se B. fosse pure il leader di Pds, Ppi & C.
Qualche mese dopo, ottobre ’95, il colonnello Michele Riccio apprende dal confidente Luigi Ilardo che questi sta per incontrare Bernardo Provenzano in un casolare di Mezzojuso. E subito avverte il capo del Ros Mario Mori. Nel giorno stabilito, Provenzano arriva. Ma Mori fa di tutto per non arrestarlo. Verrà assolto perché sì, Provenzano era lì a portata di manette; sì, quella del Ros fu una “condotta attendista sufficiente a configurare in termini oggettivi il reato” di favoreggiamento mafioso (sentenza di primo grado); sì, “molti episodi connotano di opacità l’operato inspiegabile” del Ros, dalla mancata perquisizione del covo di Riina nel ’92 alla mancata cattura di Santapaola nel ’93 (sentenza di appello); sì, non catturando Provenzano si è favorita Cosa Nostra; ma non è abbastanza provato il dolo, cioè l’intenzione di favorire Provenzano e Cosa Nostra: il Ros potrebbe aver agito “per trascuratezza, imperizia, irragionevolezza o, piuttosto, per altro biasimevole motivo”. Infatti quel gran genio di Mori, che ha così ben meritato, anziché degradato sul campo e spedito a dirigere il traffico, sarà sempre difeso da destra e sinistra e promosso a capo del Sisde. Ora sarà un caso, ma è bastato che dopo 24 anni FI e Pd mollassero il governo perché una Corte trovasse il coraggio di mettere nero su bianco quello che tutti sanno da tempo: lo Stato trattò con la mafia e condannò a morte almeno 15 innocenti.
Caro Roberto Saviano, chi governa merita certamente le critiche più feroci. Ma prima dev’essere chiaro a tutti quali “ministri (e governi) della malavita” hanno infestato l’Italia fino a quattro mesi fa.
venerdì 20 luglio 2018
Governo, ecco come superare la Fornero: In pensione con 42 anni di contributi a prescindere dall'età
Che cosa cambierà dall’anno prossimo per i pensionati? Benché non ci sia ancora nulla di ufficiale, dalle indiscrezioni emerse giorno dopo giorno è ormai possibile farsi un’idea di massima di quella che sarà (coperture permettendo) la riforma delle pensioni che vedrà la luce nei prossimi mesi. Le ipotesi più probabili ad oggi sono le seguenti: verrà introdotta l’ormai arcinota Quota 100 (somma di età e contributi necessari per andare in pensione).
A questo proposito però va fatta una precisazione: per contenere i costi, che si annunciano piuttosto importanti, il governo sarebbe orientato a mettere dei paletti, in particolare il limite di 64 anni come età minima per andare in pensione. Non sarà dunque una Quota 100 pura: chi ha 63 anni di età e 37 di contributi dovrà ad esempio rassegnarsi a lavorare un altro anno. Al compimento dei 64 anni di età si potrà andare in pensione a patto però di avere almeno 36 anni di contributi. Ai 65enni basterà (si fa per dire) aver versato i contributi per 35 anni. E via dicendo.
In pensione a prescindere dall'età
Per chi ha lavorato almeno 42 anni invece si profila l’ipotesi di andare in pensione a prescindere dall’età. Si tratta della così detta Quota 42. Per la verità sia Di Maio che Salvini hanno sempre parlato di Quota 41, ma per far tornare i conti il governo starebbe valutando la possibilità di innalzare di un anno il requisito. Ad oggi questi sono i punti fermi della riforma.
Nelle ultime settimane si è discusso però di altre possibilità. Ad esempio quella di destinare un superbonus del 30% a chi vorrà restare a lavorare. Un modo per evitare che quota 100 provochi un vero e proprio esodo pensionistico.
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