martedì 21 agosto 2018

La spudorata difesa di Autostrade: «Grazie alla privatizzazione con noi meno vittime»



In una nota i dirigenti di Atlantia tentano ancora di salvarsi la faccia, ma l'albero della cuccagna potrebbe presto finire



GENOVA - Grazie all'impegno di rafforzare i livelli di sicurezza, «che prima della privatizzazione erano drammaticamente inferiori, con l'attuale gestione abbiamo raggiunto il risultato di far diminuire drasticamente le vittime degli incidenti registrati sulle tratte autostradali da noi gestite: dalle 420 vittime nel 1999, ultimo anno di gestione pubblica, alle 119 nel 2017». Così i dirigenti di Atlantia, in una nota nella quale ribattono ad alcune accuse, spiegando di aver «ritenuto doveroso mantenere il silenzio per il rispetto dovuto alle persone che hanno perso la vita». Parole che stridono non poco con i party che intanto, a Cortina, facevano ballare i Benetton. Atlantia arriva a parlare di un «risparmio pesante» che la «nostra azienda ha realizzato in questi 18 anni di privatizzazione». E ancora: «E' il risparmio, ogni anno, di queste 300 vite, che continuerà ad alimentarci per migliorarci negli anni a venire. Se ci sarà consentito di farlo».

«Quello che con la privatizzazione abbiamo fatto...»
Un linguaggio morbido, ma potente e offensivo, che non cela per nulla l'unico interesse del gruppo: fare soldi. Possibilmente scansando la concorrenza. D'altra parte, là dove concorrenza c'è, per esempio in quello che un tempo era il suo core business, la moda, i profitti non ci sono più, e le perdite avanzano. Spiega ancora l'azienda: «Noi rappresentiamo i dirigenti di questo gruppo e della Società Autostrade per l'Italia, la metà di noi erano presenti nella Società Autostrade all'epoca della sua privatizzazione del 1999 e, dunque, testimoni di quello che eravamo e di quello che con la privatizzazione si è fatto in questi ultimi 18 anni in tema di sicurezza».

Rinnegare il dio profitto
Sono manager, professionisti, si ostinano a sottolineare, «siamo uomini e donne che in questi anni hanno lavorato per migliorare e rendere più sicura la rete autostradale gestita da Autostrade per l'Italia, attraverso interventi profondi e impegnativi come - solo per fare qualche esempio concreto - gli ampliamenti a tre e quattro corsie delle tratte a più alto traffico». Nessun freno agli investimenti per la sicurezza, nessun taglio alle spese di manutenzione da immolare sull'altare del dio profitto, assicurano i vertici di Autostrade. Al contrario, la volontà di investire «pesantemente» in sicurezza e metodi di gestione trasparenti e meritocratici - uniti a «fatica, impegno e passione» - della squadra dirigenziale e di tutto il personale dell'Azienda, per rafforzare i livelli di sicurezza «che prima della privatizzazione erano drammaticamente inferiori».

La privatizzazione, l'albero della cuccagna
Già, la privatizzazione delle autostrade: una gallina dalle uova d'oro. Che dalle mani dello Stato è passata a quelle dei privati, i Benetton nello specifico, ma anche i Gavio. Caricando gli automobilisti di debiti, investendo poco, pochissimo, nonostante gli straordinari utili. Una gestione scellerata quella di Autostrade, della famiglia Benetton appunto, che ha pensato bene, negli anni, di dirottare interessi, e denari, dal tessile, dove il brand è in caduta libera da tempo per l'agguerrita concorrenza soprattutto asiatica, a un settore incredibilmente redditizio, e per di più libero, di fatto, da concorrenza: autostrade e aeroporti, non solo italiani, diventano l'albero della cuccagna dei nuovi Benetton. Lo stesso Antonio Di Pietro, tra le tante cose ex ministro delle Infrastrutture, lo definì così. Da quando i Benetton presero in mano le autostrade italiane nel 1999, dall'Iri allora guidata da Gian Maria Gros Pietro, uomo della finanza che conta, amico di Romano Prodi, hanno vissuto di rendita. Dal 1999 a oggi le tariffe autostradali sono aumentate del 75 per cento, a fronte di un aumento dell’inflazione solo del 37 per cento. Nel gennaio 2018, gli ultimi aumenti: in media 2,7 per cento in tutta Italia, con punte del 12,89 sulla Strada dei Parchi, l'autostrada A24 che collega Roma a Teramo passando per L'Aquila, 13,91 per cento sulla Milano-Genova nel tratto Milano-Serravalle e del 52,69 per cento sull’Aosta-Morgex.

Una tassa occulta
Ma quanto incassa lo Stato italiano dai pedaggi, che peraltro sono in costante aumento e da tempo i più cari d'Europa? Il 2,4 per cento netto. Ma la maggior parte di questi vanno a finanziare i guadagni delle società concessionarie, soprattutto privati. Non è un caso che i Benetton, ma lo stesso discorso vale per i Gavio, come ha ricordato Mario Giordano, figurino regolarmente tra i Paperoni della Borsa con 8,1 miliardi di euro di patrimonio (+20% l’anno scorso) e che stiano facendo, proprio in questi mesi, shopping di società all’estero. I pedaggi, che ormai sono diventati una vera e proprio «tassa occulta e salatissima» a carico degli automobilisti, finiscono per finanziare l’espansione dei gruppi privati, le loro acquisizioni, oltre che l’arricchimento personale dei principali azionisti attraverso la distribuzione dei dividendi. Come ha ricordato ancora Giordano, ogni anno gli italiani hanno pagato pedaggi per quasi 6 miliardi di euro, molto più di quanto pagavano con la tassa sulla prima casa, il triplo di quello che pagano con il canone Rai. Di questi soldi, solo una minima parte va allo Stato: 842 milioni. Il resto rimane nelle tasche delle 24 società che gestiscono le 25 concessioni in cui è divisa la nostra rete autostradale. Spesi per pagare il personale (circa 1 miliardo), per gli investimenti (circa 1 miliardo), per la manutenzione (646 milioni), per le altre spese. Ma poi alla fine una bella fetta (1,1 miliardi) viene distribuita sotto forma di moneta sonante ai soci, per lo più privati.

Investimenti ripagati negli anni '90, e allora perché ancora rinnovare le concessioni?
Secondo il professor Giorgio Ragazzi, uno dei massimi esperti del settore, tra i primi a denunciare il mondo dei «signori del casello», tutti gli investimenti effettuati per costruire le autostrade erano già ampiamente ricompensati alla fine degli anni Novanta. Eppure, da allora si è continuato a rinnovare le concessioni, fino al 2038, fino al 2046, fino al 2050, sempre in via diretta, sempre senza gare, anche rischiando sanzioni dall’Ue. Ancora nel luglio 2017 il governo è andato a Bruxelles per ottenere il prolungamento delle proroghe e l’ha presentato come un suo successo. E' forse arrivato il momento di dire basta.

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