venerdì 1 febbraio 2019

Ennesima mazzata per i vecchi partiti: il 60% degli italiani sta con il Governo Conte



I primi sei mesi e mezzo del governo che si definisce del cambiamento misurano lo spread tra buona parte del racconto pubblico – sui giornali, in televisione, sui social – e il sentimento della maggioranza che resta al momento a prova di bomba, mai scalfito: i partiti del contratto, M5s e Lega, insieme non mollano il 60 per cento di base elettorale virtuale. “Incompetenti, analfabeti istituzionali, scappati di casa!”, e restano lassù. “I ponti delle autostrade dove un giorno si potrà mangiare e giocare“, e restano lassù. “Tiro dritto, molti nemici molto onore, me ne frego”, e restano lassù. La festa sul balcone – che porta pure male – e restano lassù. La Tap si fa anziché no, il Terzo Valico si fa anziché no, e restano lassù. Le accise sulla benzina ci sono ancora tutte e restano lassù. Le fiducie degli altri erano “golpe“, “atti eversivi“, segni che “siamo in dittatura“: ne mettono 8 in 6 mesi ma restano ancora lassù.

Il 4 marzo, nel proporzionale, Cinquestelle e Carroccio avevano preso rispettivamente il 32,7 e il 17,4 per cento, cioè insieme la metà esatta dell’elettorato che si era presentato alle urne. L’ultimo sondaggio utile – di Tecnè, realizzato il 17 dicembre, diffuso da Quarta Repubblica di Nicola Porro su Rete 4 – dice che la Lega sfiora il 33 (32,8) e il M5s sta stabile sopra al 25 (25,3). Il primo inseguitore – il Pd – è distante di 8 punti che in voti effettivi fa più o meno 4 milioni e mezzo. I sondaggi di oggi hanno esteso la fiducia e quindi anche la legittimità dell’azione dell’esecutivo. Fiducia, infatti, in questo caso è ancora sinonimo di speranza. La manovra battezzata del popolo è stata approvata in questo modo un po’ sgangherato, all’ultimo tuffo e di fretta, tra duemila correzioni e rinvii? Chi se ne frega: gli elettori si fidano di chi hanno scelto quasi 7 mesi fa soprattutto perché aspettano che le promesse quelle grandi vengano mantenute. Aspettano, cioè, che reddito di cittadinanza e riforma della Fornero da parole diventino realtà. Tutto il resto – gli incidenti, le gaffe, le liti, le incoerenze – non conta niente, oggi.

Dal 4 marzo è cambiato che i leghisti sono primi e i Cinquestelle secondi e non più viceversa e col passare dei mesi il distacco tra i due si è mosso a fisarmonica (ora due, ora quattro, ora sei punti). Ma quello che salta all’occhio è che – a dirla grezza – al momento può accadere qualsiasi cosa, ma la maggioranza resta con chi sta al governo. I due elettorati, forse anche più delle basi parlamentari di ciascun partito, credono al governo Conte in qualsiasi passaggio, a prescindere dai fatti, dalle balbuzie che stare al governo comporta per prassi per tutti, quelli di prima e quelli di dopo. Anzi, visto che i diverbi da fight club tra due partiti così diversi non mancano, chi è visto come il principale mediatore (con il Quirinale, con l’Europa, ma soprattutto tra i due partiti), cioè il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, resta tra i leader politici più popolari: costantemente favorito al capo politico del M5s Luigi Di Maio, se la batte anche con Matteo Salvini, la cui comunicazione – a differenza del capo del governo – è studiata da anni proprio per produrre consenso, una tempesta che passa a ogni ora attraverso agenzie di stampa, tweet, foto di pasta e ragù, fiere di agricoltori e curve sud.

Si potrebbe forse definire “democrazia percepita“, come la temperatura o la sicurezza. Non c’è fact-checking che tenga: a prescindere dai dati, il governo che promette il cambiamento può sempre contare sulla spinta del suo popolo. Tanto da compiere almeno un cambiamento, quello sì storico nel suo piccolo e magari nemmeno voluto: dicono le ultime analisi di Demos&Pi, istituto che collabora con Repubblica, che è tornata a salire la fiducia nel Parlamento e nei partiti, che è come dire che passa davvero la stella cometa, visto che da anni sono le due istituzioni nei confronti delle quali i cittadini hanno meno stima. Tra il 2017 (fine dei governi di centrosinistra) e il 2018 (inizio dell’esecutivo Conte) l’indice di gradimento per le forze politiche è salito di tre punti – dal 5 all’8 per cento – mentre quello per il lavoro delle Camere è saltato dall’11 al 19, tornando a cifre di 10 anni fa, molto prima del big bang grillino e della cavalcata salviniana.

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