venerdì 29 settembre 2017

SCANDALO ETRURIA, 10 MILIONI DI EURO ANCHE ALLO ZIO DELLA BOSCHI! ECCO CHI SI E’ PAPPATO I SOLDI CHE RENZI HA “RUBATO” AI CORRENTISTI PER DECRETO!

Pure lo zio della Boschi tra i grandi debitori del crac Banca Etruria
L’istituto ha finanziato con 10 milioni la “Saico”, l’azienda rossa di cui è stato per anni amministratore Stefano Agresti, fratello della mamma


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Una famiglia, quella dei Boschi, che non finisce mai di stupire. Dall’albero genealogico più chiacchierato d’Italia ora spunta anche un oscuro zio.


Stefano Agresti, ragioniere, 57 anni, nato a Spoleto oggi vive ad Arezzo, fratello di Stefania, professoressa ed ex vicesindaco di Laterina, e soprattutto madre del ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi. L’azienda dove lo zio Stefano ha ricoperto per anni incarichi dirigenziali all’interno del cda è tra quelle che hanno accumulato enormi debiti con Banca Etruria e che ha contribuito ad affossare l’istituto. La Saico, fondata nel 1973, era un’azienda leader a livello internazionale nel mercato degli impianti di verniciatura, forni, sistemi di ventilazione e barriere fonoassorbenti, con sede ad Arezzo e una succursale a Laterina, la Saico Refinish, dove è nata, a un centinaio di metri dalla grande casa rosa della famiglia Boschi. L’azienda fallisce nel 2013, dopo una crisi che determina un fabbisogno di più di 70 milioni di euro, mettendo in mezzo ad una strada 200 dipendenti. Il 21 marzo 2013 il tribunale di Bologna dichiara il fallimento di Energia & Ambiente, la società che aveva «assunto» il concordato delle imprese rimaste formalmente attive dopo la fine di Saico Refinish. I debiti riguardano le diverse articolazioni dell’azienda: quella relativa ai forni (Refinish) e quella dei pannelli frangirumore per le autostrade (Energia & Ambiente). Quasi 25 milioni, per la precisione 24,5, spariscono nel crac legato al fallimento della Saico e poi di Energia & Ambiente. Circa 10 milioni di questi vengono finanziati da Banca Etruria e non sono mai rientrati. La Saico Refinish di Laterina è la prima a fallire, nel 2011.


Le altre aziende del gruppo (Energia & Ambiente, Boss, Air, Saico Co e Saico Spa) vivono prima la fase del concordato e poi muoiono anche loro. Gli aretini più anziani conoscono la Saico come «l’azienda dei Ds, del tutto politicizzata, che usava come mano d’opera cooperative sociali, l’avamposto del settore industriale del partito e che vinceva commesse pubbliche milionarie come quelle i pannelli fonoassorbenti per le autostrade». Tutti sanno che negli anni Novanta funge da poltronificio per i compagnucci. Il fallimento del gruppo Saico, che ha contribuito a trascinare nella fossa Banca Etruria, è legato a personaggi del Pci, Ds e Pd. Dirigenti famosi in città come Paolo Nicchi (socio di minoranza), esponente politico di primo piano dal Pci fino al Pd, ex vicesindaco e al momento del fallimento, nel 2013, alla presidenza della Fiera Antiquaria . Luciano Baielli (che ha lasciato ad altri il «cerino» delle responsabilità), eminenza grigia e uomo forte dei Ds aretini, alla guida dell’ex azienda dei trasporti Atam ai tempi di Nicchi vicesindaco. Gianni Arno, ex dirigente della San Giovanni Valdarno Calcio (serie D). E, infine, appunto zio Stefano Agresti. Nel suo profilo Linkedin lo zio Stefano si definisce «Libero professionista Macchinari industriali» (con un diploma di ragioneria) e su Facebook rimanda il suo nome alla Saicozero Sa di Stabio, nel canton Ticino, in Svizzera. Il centralino della Saicozero, però, è allacciato ad una segreteria telefonica.Ieri Matteo Renzi al Senato ha parlato di Banca Etruria come «discussione allucinante», «di non aver riguardo per nomi e cognomi», «per noi non ci sono amici o amici degli amici», «non si può parlare di conflitto di interessi».Va riconosciuto: questo ragazzo ha un coraggio da leoni.

10MILA EURO AL MESE IN NERO, PIU’ VIAGGI E CASA ARREDATA: ARRESTATA SINDACA. ECCO COME FACEVA A FARE BUSINESS SULLA PELLE E LA SALUTE DEI CITTADINI


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Maddaloni, arrestato il sindaco Rosa De Lucia. Intascava tangenti per il servizio rifiuti. Soldi anche per viaggi e arredare casa


Il sindaco Rosa De Lucia aveva un bancomat personale, fatto di carne e ossa. Nessuna tessera da inserire ma tanti soldi da ritirare: almeno 10mila euro al mese, più denaro per viaggi come quello ad Antibes e perfino contante per arredare casa. I soldi le venivano forniti dall’imprenditore Alberto di Nardi, l’uomo a cui la prima cittadina di Forza Italia garantiva il servizio di raccolta dei rifiuti.
Emerge anche questo dall’inchiesta della procura di Santa Maria Capia Vetere sul Comune di Maddaloni, in provincia di Caserta, dove sono state emesse cinque ordinanze di custodia cautelare (due in carcere e tre ai domiciliari). L’accusa è quella di tangenti intascate per affidare, ciclicamente, il servizio di raccolta rifiuti sempre alla stessa ditta.
Nel Comune alle porte di Caserta i carabinieri hanno arrestato anche l’assessore Cecilia D’Anna, il consigliere comunale Giuseppina Pascarella e appunto l’imprenditore. Sono tutti ritenuti responsabili a vario titolo di corruzione, tentata induzione indebita a dare e promettere qualcosa e peculato in concorso.
Al centro dell’inchiesta la figura della 36 enne Rosa De Lucia. Per la procura avveniva “una corruzione sistemica – ha spiegato il procuratore aggiunto Carlo Fucci – che ricorda la tangentopoli casertana del 1992. Di Nardi – scrive il Gip Sergio Enea – era un bancomat per la De Lucia”. Grazie ai soldi di Di Nardi il sindaco si era permesso un viaggio ad Antibes con l’amica assessore Cecilia D’Anna (anche lei arrestata), aveva arredato completamente casa e fatto tante altre spese.
Dopo la denuncia di una ditta concorrente sono però iniziati i pedinamenti e Di Nardi è stato fermato a un finto posto di blocco con in tasca 5000 euro. “Sono per le bollette” avrebbe detto, soldi che invece erano destinati al sindaco. In altre occasioni Di Nardi avrebbe anche sponsorizzato progetti della giunta e pagato circa 500 euro per iniziative contro il femminicidio.
L’azienda dell’imprenditore risulta, con 300 dipendenti sparsi in vari comuni, come una fra le maggiori del casertano. La Dhi (Di Nardi Holding) si occupa di servizi ecologici e gestisce il servizio di raccolta dei rifiuti solidi urbani a Maddaloni, e nei comuni di Santa Maria Capua Vetere, San Nicola la Strada, Bellona, Pontelatone, Roccaromana, Teverola, Cesa e Vitulazio. Nata solo 5 anni fa, in pochi anni ha fatto incetta di appalti riuscendo ad ottenere continue proroghe e rinnovi contrattuali. La stessa De Lucia aveva ricevuto richiami formale dalla prefettura di Caserta che la invitava a lanciare una gara d’appalto per affidare il servizio di raccolta dei rifiuti ma questo non avveniva. Di Nardi infatti secondo la procura “pagava” per poter mantenere il servizio. Arrestato, ora all’imprenditore i carabinieri hanno sequestrato preventivamente un milione di euro.

UNA MONTAGNA DI SOLDI IN LUSSEMBURGO E ISRAELE: ECCO IL “TESORO” DI MATTEO RENZI, REGALATO IN QUESTI ANNI DAI SUOI “PADRONI”


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Avete mai notato come l'ex Premier Matteo Renzi sia più che maniacale e morboso nei riguardi di Marco Carrai. Come se fosse il suo tallone d'achille. Perchè? Ma chi c’è dietro Carrai? Quali sono i suoi soci? E soprattutto: perché Renzi non può rinunciare alla sua nomina? La risposta è proprio nella


 rete di rapporti, soldi e uomini, legati a doppio filo con Carrai. Una rete che il Fatto Quotidiano è in grado di rivelare. Grandi imprenditori delle infrastrutture pubbliche, consiglieri di Finmeccanica, capi di importanti gruppi bancari, ex agenti dei servizi segreti israeliani, uomini legati ai colossi del tabacco. Oltre al solito fedelissimo renziano Davide Serra, finanziere trapiantato a Londra e creatore del fondo Algebris. Persino un commercialista accusato di riciclaggio.
Una rete che si snoda intorno a Carrai proprio dal 2012: negli stessi giorni in cui Renzi avvia la scalata al Pd e poi al governo. Una rete che arriva sino a oggi, alla Cys4, la società di Carrai per la cybersicurezza. La stessa società a cui il governo si è aggrappato per giustificare le competenze di “Marchino”, come lo chiamano gli amici, per guidare il comparto dell’intelligence. Persino il ministroMaria Elena Boschi ne ha dovuto rispondere in aula. Eppure, è proprio la presenza sul mercato della Cys4 a rendere Carrai un uomo in pieno conflitto di interessi.

Quell’estate calda in Lussemburgo. Torniamo quindi al giugno 2012. Renzi annuncia la sua candidatura alle primarie contro Pier Luigi Bersani. Due mesi dopo Carrai vola in Lussemburgo. È il primo agosto. Il Richelieu del premier crea una società, la Wadi Ventures management capital sarl, con poche migliaia di euro e un pugno di soci. C’è la Jonathan Pacifici & Partners Ltd, società israeliana del lobbista Jonathan Pacifici, magnate delle start up che dalla “silicon valley” di Tel Aviv stanno conquistando il mondo.
A Carrai e Pacifici si uniscono la società Sdb Srl di e i manager e . I cinque della Wadi Sarl sono gli stessi che oggi controllano il 33 per cento della Cys4, la società di intelligence di Carrai. Un dato che in questa storia non bisogna mai dimenticare. Ma perché Carrai crea in Lussemburgo la Wadi sarl? La risposta arriva dalle visure camerali lussemburghesi. Fine principale: sottoscrivere e acquisire le , omonima e sempre lussemburghese, che in quel momento ancora non esiste: . Nasce nel novembre 2012. Renzi è in piena campagna elettorale. Il 27 novembre l’amico Serra, già finanziatore della Fondazione Big Bang di Renzi, versa i primi 50 mila euro nella Wadi Sca. E nelle stesse settimane Carrai, in Italia, pone le basi della futura Cys4.
A Carrai e Pacifici si uniscono la società Sdb Srl di Vittorio Giaroli e i manager Renato Attanasio Sica eGianpaolo Moscati. I cinque della Wadi Sarl sono gli stessi che oggi controllano il 33 per cento della Cys4, la società di intelligence di Carrai. Un dato che in questa storia non bisogna mai dimenticare. Ma perché Carrai crea in Lussemburgo la Wadi sarl? La risposta arriva dalle visure camerali lussemburghesi. Fine principale: sottoscrivere e acquisire le partecipazioni di un’altra società, omonima e sempre lussemburghese, che in quel momento ancora non esiste: Wadi Ventures Sca. Nasce nel novembre 2012. Renzi è in piena campagna elettorale. Il 27 novembre l’amico Serra, già finanziatore della Fondazione Big Bang di Renzi, versa i primi 50 mila euro nella Wadi Sca. E nelle stesse settimane Carrai, in Italia, pone le basi della futura Cys4.
Il 26 ottobre “Marchino” crea l’embrione della sua futura creatura, quella dedita alla cybersecurity, e che vede Renzi, proprio oggi, impegnato ad affidargli il settore informatico della nostra intelligence.
La ramificazione israeliana. L’embrione della Cys4 si chiama Cambridge management consulting labs. È una società di consulenza aziendale, iscritta alla Camera di commercio il 6 novembre, un mese prima delle primarie. I soci della Cambridge? Gli stessi della Wadi Sarl lussemburghese. Che così controllano anche la cassaforte Wadi Sca. Nella quale, dopo Serra, entra la Fb group Srl, di Marco Bernabé, già socio della Cambridge.
Stessi uomini, società diverse, che dal Lussemburgo portano anche in Israele. Bernabè è socio di un’altra Wadi Ventures, con sede a Tel Aviv, al 10 di Hanechoshet street. È la stessa sede israeliana dell’italianissima Cambridge. Il 2 dicembre Renzi perde le primarie. Le società lussemburghesi legate a Carrai conquistano invece nuovi soci. Non dimentichiamo la squadra: gli uomini della Cambridge, sono gli stessi della Wadi sarl, che controlla la Wadi Sca. E in pochi mesi arriva un altro milione. Con quali soci?
A marzo 2013, nel capitale sociale, entra la Equity Liner con 100 mila euro, creata nel 2006 da tre società (Global Trust, Finstar Holding srl, Regent Sourcing Ltd) rappresentate da AnnalisaCiampoli. La Finstar Holding, è del commercialista e faccendiere romano Bruno Capone. La signora Ciampoli, pur non essendo indagata, è definita, in alcuni atti d’indagine – quelli su un’associazione per delinquere dedita al riciclaggio transnazionale – la collaboratrice di Capone. Capone, invece, è indagato dalla Procura di Roma per riciclaggio in relazione a ingenti trasferimenti di denaro in Lussemburgo che non riguardano la Wadi.
Nel marzo 2012, dunque, il nuovo socio del gruppo di Carrai è un presunto riciclatore, tuttora indagato. Sei mesi dopo, la Equity Liner riconducibile a Capone, viene venduta a un’altra società, la Facility Partners Sa. E Renzi torna a candidarsi per le primarie.
Signori del tabacco e delle banche. In quei mesi, la lobby del tabacco è impegnata nella battaglia sulle accise. Il collegato alla Legge di stabilità prevede un aumento di 40 centesimi sui pacchetti più economici. L’operazione però salta. Renzi in quel momento non è ancora al governo. Ma è in corsa per le primarie, stavolta può vincere. Il presidente della Manifattura italiana tabacco, in quel momento, si chiama Francesco Valli. È lo stesso Valli che, fino al 2012, è stato a capo della British American Tobacco Italy. Non è di certo un uomo legato al Pd. Anzi. Presiede per tre anni, dal 2009 al 2012, la Fondazione Magna Charta creata dal senatore allora Pdl Gaetano Quagliarello. È lui il prossimo uomo ad aprire il portafogli. È il nuovo socio della Wadi Sca e del gruppo Carrai. Che la lobby della nicotina avesse finanziato Renzi, attraverso la fondazione Open, diventa noto nel luglio 2014, quando la British American Tobacco versa 100mila euro. Il Fatto può rivelare che l’interesse della lobby risale a un anno prima: tra aprile e settembre, Valli versa 150 mila euro alla Wadi Sca, diventando anch’egli socio di Carrai e Serra. Valli, contattato dal Fatto, ha preferito non commentare.
In pochi giorni si aggiunge anche Luigi Maranzana, che acquista azioni per 100 mila euro. È lo stesso Maranzana che oggi riveste la carica di presidente della Intesa San Paolo Vita, ramo assicurativo del gruppo bancario guidato da Giovanni Bazoli. Interpellato, non se n’è accorto: “Socio di Carrai e di Serra? Non ne so niente, Carrai non lo conosco, sono sempre stato lontano dalla politica – risponde al Fatto –. Ho solo fatto un investimento”. Chi gliel’ha suggerito? Clic.
Alla fine del 2013, quando Renzi diventa segretario del Pd e si avvicina a scalzare Enrico Letta, è il caso di fare qualche conto. Nella Wadi Sca, in un solo anno, sono entrati un milione e 50 mila euro e cinque nuovi soci. A controllare il tutto c’è Carrai. Non solo. Gli stessi soci di Carrai in Lussemburgo – Moscati, Bernabé, Pacifici, Sica e Giaroli – sono già attivi da un anno, in Italia, nella Cambridge, che a fine 2013 matura un utile di appena 46 mila euro. È destinato a salire vorticosamente nell’anno successivo. Quando Renzi diventa premier. Ed è proprio il 2014 a segnalare le novità più interessanti sul fronte lussemburghese.
Nominato in Finmeccanica, arriva il nuovo socio. Nella primavera del 2014, dopo aver conquistato la segreteria del Pd e varcato la soglia di Palazzo Chigi, Renzi è già impegnato nella sua prima tornata di nomine per le aziende di Stato. E nel cda di Finmeccanica entra un uomo che l’ha sostenuto sin dall’inizio: Fabrizio Landi, esperto del settore bio-medicale, tra i primi finanziatori della Leopolda con 10 mila euro. “Ma lei pensa che con 10 mila euro ci si compra un posto nella società più tecnologica del Paese?”, dice Landi all’Huffington Post. In effetti, tre mesi dopo la sua nomina in Finmeccanica, Landi versa altri 75 mila euro comprando altrettante azioni della Wadi Sca.
Non è l’unico a incrementare il capitale della Wadi e, soprattutto, a diventare socio del gruppo legato a Carrai. C’è anche un importante imprenditore che, proprio in quelle settimane, fatica a farsi ascoltare dall’ex ministro per le Infrastrutture, Maurizio Lupi, nonostante gestisca appalti pubblici per miliardi. Il suo nome è Michele Pizzarotti, costruttore.
“Sostegno all’estero” per l’uomo delle strade. Ad aprile Pizzarotti ha un problema: riuscire a parlare con l’ex ministro Maurizio Lupi. Per riuscirci, deve passare attraverso tale FrancoCavallo, detto “zio Frank”, amico di Lupi, che organizza tavoli con visione del ministro, annesso dialogo e strette di mano, in cene da 10mila euro: “Inizia alle 7? A che ora finirà? Si cena in piedi?”, chiede Pizzarotti a “zio Frank”, il 19 marzo 2014, annunciandogli la sua presenza. Dodici giorni dopo – il primo aprile 2014 – “zio Frank” gli fissa un appuntamento telefonico con Emanuele Forlani, della segreteria di Lupi, ma l’aggancio non funziona. “Mi ha detto ‘devo vedere’…”, spiega Pizzarotti a zio Frank, “per l’amor di Dio sarà impegnatissimo, però, ragazzi, stiamo parlando di un’impresa che ha in ballo 4 miliardi di opere bloccate per motivi burocratici assurdi”. Ecco, nell’aprile 2014, Pizzarotti ha un problema: tenta di parlare con Lupi perché vede le sue “opere bloccate per assurdi motivi burocratici”. Cinque mesi dopo, versa 100 mila euro in Lussemburgo, alla Wadi Sca, diventando socio degli uomini più vicini a Renzi. Eppure il business delle start up non è mai stato il suo core business. Due mesi dopo questo versamento Renzi è a Parma, nell’azienda Pizzarotti, dove lo accolgono il patron Paolo con i figli Michele ed Enrica: “Occorre far ripartire l’edilizia”, dice davanti alle tv, “il governo vuol sostenere le imprese italiane all’estero”.
Di certo, in quel momento, c’è che è proprio Pizzarotti a sostenere un’azienda all’estero, per la precisione la Wadi sca. Contattato dal Fatto, l’imprenditore spiega che i problemi sono rimasti anche con l’arrivo al posto di Lupi di Graziano Delrio che però, a differenza del predecessore, almeno l’ha ricevuto. “Ci ha accolto, sì, ma senza alcun vantaggio per i nostri lavori”. Chi l’ha invitata – chiediamo – a investire nella Wadi? “Pacifici. Non sapevo fosse controllata da Carrai”. E sono due. Poi aggiunge: “L’ho scelta perché investe in start up in Israele, Paese più innovativo assieme alla California, dove peraltro la mia impresa lavora, nella convinzione di fare un affare azzeccato. Pacifici mi invia periodicamente report sull’andamento dei nostri investimenti”. E Israele, in questa storia, è davvero centrale.
Dal Mossad agli affari. Alla Wadi Sarl, nell’estate del 2014, si aggiunge un’altra società, la Leading Edge, riconducibile a Reuven Ulmansky, veterano della unità 8200 dell’esercito israeliano, creata nel 1952, equivalente alla National security agency (Nsa) degli Usa, dedita da sempre alla guerra cibernetica e alla “raccolta dati” per l’intelligence israeliana. Ulmansky è socio di Carrai e degli stessi uomini che, pochi mesi dopo, nel dicembre 2014, partecipano con il 33 per cento alla neonata Cys4 che, guarda caso, vanta tre sedi in Italia e una a Tel Aviv.
Chi sono i soci della Cys4? Per il 33 per cento, appunto, sono Sica, Moscati, la Fb di Bernabè, Pacifici e Carrai. Quali sono i soci della lussemburghese Wadi Sarl? Sica, Moscati, Bernabé, Pacifici, Carrai. E Sica, Moscati e Carrai, amministrano la cassaforte Wadi sca, dove hanno investito i loro soldi Serra, il futuro capo di San Paolo Vita, Maranzana, il futuro consigliere di Finmeccanica Landi, l’uomo della lobby del tabacco Valli, il grande imprenditore Pizzarotti.
Con i nuovi soci si cresce. Il 30 novembre 2014 la società porta il capitale a 1,5 milioni e delibera aumenti fino a 3 milioni. Gestiti dagli stessi uomini che controllano, attraverso la Cambridge, il 33 per cento della Cys4. E sul fronte italiano? La Cambridge, amministrata dallo stesso gruppo, nel 2014 vede esplodere l’utile da 46 mila euro a 1,5 milioni.
Ieri Il Fatto ha contattato Carrai, che ha preferito non rispondere alle nostre domande. È per lui che il premier Renzi sta ridisegnando l’intelligence del Paese, ridistribuendo poteri e rischiando disequilibri e frizioni con il Quirinale. Il tutto solo per creare un ruolo chiave da assegnare a Marco Carrai.






fonte: http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/03/21/carrai-la-rete-occulta-dello-007-di-renzi-tra-soldi-allestero-e-faccendieri/2566729/

Clamoroso:la stampa estera umilia quella italiana per difendere la Raggi da tutto il fango ricevuto


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Virginia, un femminicidio mediatico

Premessa: 1) non ho mai votato per il Movimento 5 Stelle; 2) non ho mai incontrato Virginia Raggi e, perciò, non mi permetto di giudicarla; 3) non entrerò nel merito delle questioni romane (la pesante eredità del passato, i pasticci nel formare la giunta, gli scontri fra il sindaco e i suoi colleghi di partito) che non mi sono del tutto chiare e, comunque, meriterebbero un’analisi seria e approfondita.
Però…
…però sento l’obbligo – sì, l’obbligo – di spendere qualche parola per quanto è avvenuto e sta avvenendo, dal 20 giugno 2016 (giorno dell’elezione), nella vita della trentottenne che guida dal Campidoglio la città caput mundi (prima donna in 2.769 anni di Storia).
Partiamo dall’inizio.
La sua vittoria non ha suscitato il benchè minimo entusiasmo tra le numerose aggregazioni femminili italiane, di solito orgogliosamente velocissime nel sottolineare i successi di signore e signorine.
Anzi…

Riporto quanto ho scritto proprio qui dopo il voto: “L’appartenenza grillina ha oscurato l’appartenenza di genere, diciamolo (…) Perfino fra le militanti di molte associazioni femminili. Da cui è arrivato un fragoroso silenzio o, tutt’ al più, qualche cigliosa presa d’atto, giungendo  addirittura a sottolineare maliziosamente le differenze fra Chiara Appendino (che a Torino ha sbaragliato il sindaco uscente, Pietro Fassino) e la Raggi in termini di obbedienza al Movimento 5 stelle. Di più. Si è rimproverato a entrambe di non aver usato il sostantivo sindaca al posto di sindaco… Nessuna, insomma, ha stappato entusiasticamente bottiglie di champagne nella trincea rosa del Paese. E sul fronte maschile come è andata? Peggio mi sento (a cominciare dal marito della Raggi, che proprio la sera dell’elezione, con una lettera aperta diffusa via Twitter, ha messo in piazza la crisi del loro matrimonio; ed è stato bacchettato su l’Espresso). Come ha raccontato Nadia Somma, di Demetra donne in aiuto, Chiara e Virginia sono state trattate alle stregua di due fenomeni da baraccone, scatenando uno “stupidario”: “Riferimenti all’abbigliamento e all’avvenenza, linguaggio informale (per molti giornalisti e giornaliste sono “le ragazze” e  Raggi è “a moretta”) o smaccatamente sessista (bambola, bambolina, fatina). Alcuni articoli sono irritanti altri involontariamente comici”. E giù con una serie di citazioni. Ben visivamente riassunte, peraltro, nel tweet di Tania Marocchi, dell’European Policy Centre, che offre un eccellente colpo d’occhio sui titoli dei quotidiani italiani: da “Roma in bambola” (Il Tempo) a “Ma saranno capaci?” (Libero)”.
Questo, appunto, all’inizio.
Dopo, tra luglio, agosto e settembre, è andata ancor peggio.
Decisamente peggio.
Senza – lo ripeto – entrare nel merito delle complesse vicende politiche, annoto che Virginia è stata costantemente sbattuta in prima pagina.
È stata sottoposta, cioè, al trattamento che (in un tempo per fortuna lontano) si riservava ai mostri della cronaca condannandoli prima dei processi.
Non basta.
In poche settimane ha avuto da parte dei telegiornali più minutaggio di quanto il Movimento 5 Stelle abbia collezionato negli ultimi due anni.
E il culmine è stato raggiunto domenica 11 settembre.
Quel giorno, infatti, tutti i più importanti quotidiani italiani, i notiziari televisivi e radiofonici hanno utilizzato un banale articoletto sul maltempo dell’Osservatore romano, il quotidiano del Vaticano, elevandolo al rango di presa di posizione della Santa Sede contro l’operato della Raggi.
Una balla spaziale.
Tanto che, letti i giornali, l’autorevole Monsignor Angelo Becciu, sostituto della Segreteria di Stato, si è affrettato a smentire.
Qualcuno ha forse detto o scritto “Abbiamo sbagliato”?
Qualcuno per caso ha chiesto scusa al Vaticano e al Campidoglio?
Nisba.
Solo Marco Travaglio, su il Fatto Quotidiano e, poi, in tv, ospite di Lilli Gruber aOtto e mezzo, ha parlato chiaro, anzi chiarissimo, raccontando, dati alla mano, come la stampa abbia gonfiato il… nulla e insabbiato, il giorno dopo, le parole di Becciu.
Capito?
Mica è finita.
Alla ricerca di non si sa bene che cosa, le troupe televisive hanno assediato l’abitazione privata di Virginia come non si è mai visto fare, nella lunga storia della Repubblica, con qualsivoglia politico.
E, tuttavia, esclusa la diretta interessata, nessuno ha fiatato.
Mentre, per dire, è bastata una vignetta sul ministro Maria Elena Boschi per scatenare il pandemonio e financo lo sdegno di chi, paladino “Senza se e senza ma” della satira, proclamava “Je suis Charlie”.
Ecco, concludo.
Scommetto che se al posto della Raggi ci fosse qualcun’altra e subisse lo stesso trattamento si urlerebbe al femminicidio mediatico.
Invece qui – a parte Travaglio – stanno tutti zitti.
E, quel che è peggio, tutte zitte…

Fonte: http://www.tvsvizzera.it/radio-monteceneri/Hypercorsivi/Virginia-un-femminicidio-mediatico-8041420.htmlb

Truffa e corruzione nel PD: sedici big a processo per truffa e corruzione! Ecco tutti i nomi


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Terremoto sul Pd. Sono stati rinviati a giudizio i 16 ex consiglieri regionali del Partito Democratico che sono stati coinvolti in una indagine della Procura di Roma sulla gestione dei fondi per i gruppi consiliari. Il giudice per l’udienza preliminare, Alessandra Boffi, ha quindi accolto le richieste dei pm Alberto Pioletti e Laura Condemi. Tra i rinviati a giudizio ci sono l’ex capogruppo Esterino Montino e poi Giancarlo Lucherini, Bruno Astorre, Claudio Moscardelli, Francesco Scalia, Daniela Valentini, Marco Di Stefano ed Enzo Foschi.

Il processo, si apprende, prenderà il via il prossimo 22 gennaio davanti all’ottava sezione penale. Di fatto le accuse sono diverse e vanno dal reato di peculato all’abuso di ufficio, dal peculato alla corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio alla truffa. I fatti che vengono contestati riguardano il periodo che va dal 2010 a 2013 e si riferiscono all’uso da parte dei consiglieri dei fondi regionali anche per gli acquisti di servizi in realtà mai riscontrati.

giovedì 28 settembre 2017

4 ANNI DI BILANCI FALSI! LA CORTE DEI CONTI INCHIODA RENZI, NEL SILENZIO TOTALE DEI MEDIA ASSERVITI


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Renzi, Corte dei conti accusa: a Firenze 4 anni di “gravi irregolarità” in bilancio
“Inosservanza dei principi contabili di attendibilità, veridicità e integrità del bilancio, anche violazioni in merito alla gestione dei flussi di cassa e alla loro verificabilità”. Così i giudici contabili bollano la gestione dell’attuale premier da primo cittadino del capoluogo toscano. E il successore-delfino Nardella deve trovare 50 milioni di euro.

E quattro. Il Comune di Firenze è costretto ancora una volta a ricevere i rilievi della Corte dei conti. Per il quarto anno consecutivo. L’intera gestione firmata Matteo Renzi. Ma questa volta ai giudici contabili non sono bastate le rassicurazioni di Palazzo Vecchio e non è stato sufficiente neanche l’intervento riparatore della giunta di Dario Nardella, che si è visto costretto a rimediare alla pesante eredità ricevuta. Per i giudici contabili rimangono “gravi irregolarità” che generano “oltre all’inosservanza dei principi contabili di attendibilità, veridicità e integrità del bilancio, anche violazioni in merito allagestione dei flussi di cassa e alla loro verificabilità”. Per questo la Corte, il 31 luglio come già il 22 maggio, ha recapitato a Palazzo Vecchio un’ordinanza con cui invita l’ente “ad adottare entro 60 giorni i provvedimenti idonei a rimuovere le irregolarità e a ripristinare gli equilibri di bilancio”.

L’erede di Renzi, il fidato Nardella, sapeva che con la poltrona di primo cittadino avrebbe ricevuto in consegna anche qualche guaio. Ma non di tale entità. La percezione reale l’ha avuta lo scorso dicembre quando ha saputo che anche da Roma l’amico Matteo avrebbe regalato altri guai. Con esattezza minori entrate dallo Stato per 22 milioni. Il 27 dicembre 2014, dopo aver faticosamente chiuso la discussione sulla Finanziaria, Nardella ha ammesso: “Sappiamo solo che c’è uno sbilancio di 50 milioni di euro, dobbiamo trovare 50 milioni”. Aggiungendo sconsolato: “Ci stiamo lavorando anche in questi giorni di ferie”. Non è servito. Non secondo i giudici contabili che a fine luglio hanno contestato alcuni punti al sindaco seppure prendendo atto che l’erede ha risolto qualche falla lasciata dal predecessore.

ECCO LE PROVE: LA VALANGA DI MILIONI CHE FORMIGONI HA RUBATO AI MALATI! LA CIFRA? LA METTE “NERO SU BIANCO” IL GIUDICE

RICORDERETE LO SCANDALO SANITA’ CHE FECE DIMETTERE FORMIGONI DALLA PRESIDENZA DELLA REGIONE LOMBARDIA. UNA CRICCA CHE AVEVA IN MANO I FONDI DELLA SANITA’. DECINE E DECINE DI MILIONI DI ERUO SPARITI E UTILIZZATI PER LA BELLA VITA. DOPO LA CONDANNA, ARRIVA LA PUBBLICAZIONE DELLA SENTENZA. ROBA DA GALERA E BUTTARE VIA LE CHIAVI…


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tratto da Il Messaggero
E’ stato condannato a sei anni di reclusione per corruzione per il caso Maugeri, con beni confiscati per 6,6 milioni di euro. Senza attenuanti perché, come spiegano i giudici del Tirbunale di Milano, nel corso del processo a carico di Roberto Formigoni sono emersi “gravi fatti posti in essere dalla più alta carica politica della Regione Lombardia per un lungo periodo di tempo, con particolare pervicacia”, con “palese abuso delle sue funzioni” e “in modo particolarmente callido e spregiudicato, per fini marcatamente di lucro e con grave danno per la Regione”.


“SOLDI RUBATI AI MALATI”
Secondo l’accusa il faccendiere Pierangelo Daccò, già condannato nel processo San Raffaele, e l’ex assessore lombardi Antonio Simone sono stati il bancomat attravero il quale l’allora governatore della Regione – al Pirellone ininterottamente da 1995 al 2013, avrebbe goduto di una serie di benefit di lusso, tra cui “viaggi ai Caraibi barche con tanto di champagne a bordo”. In questo modo il Celeste, per i pm di Milano Laura Pedio e Antonio Pastore, era “capo” di un “gruppo criminale” che avrebbe “sperperato 70 milioni di euro di denaro pubblico con un grave danno al sistema sanitario”. Per l’accusa si è trattato di una “corruzione sistemica durata 10 anni”, soldi “rubati ai malati della Regione Lombardia, soldi pubblici che erano destinati a curare malattie, ad accorciare liste di attesa, ad aumentare posti letto, a comprare farmaci – ha detto la pm nella sua requisitoria – E anche i soldi con cui è stato costruito un ospedale in Cile per i bambini cerebrolesi sono stati rubati ad altri malati”. I giudici della decima sezione penale hanno fatto cadere l’accusa di associazione a delinquere, mantenendo la corruzione e non concedendo alcuna attenuante. Questo in considerazione della “gravità delle condotte, dell’intensità del dolo, dell’entità delle unità illecite percepite per la messa a disposizione dell’altissima funzione, della mancanza di alcun quantomeno parziale risarcimento del danno, della notevole entità dei danni patrimoniali cagionati”, scrive il tribunale. Che ha anche calcolato quello che ritiene sia l’illecito guadagno del Celeste: “Le utilità corrisposte a Formigoni in esecuzione dell’accordo corruttivo, tra il 2006 ed il 2011, sono stimabili nell’ordine di almeno sei milioni di euro, a fronte di circa 120 milioni di euro e di circa 180 milioni di euro che, nello stesso periodo, vengono erogati dalla Regione rispettivamente a Fondazione Salvatore Maugeri e Ospedale San Raffaele”. Per i giudici, inoltre, “l’evidenza delle prove raccolte smentisce in radice la tesi della difesa di Formigoni”, secondo cui le cosiddette “utilità del presidente” non sarebbero altro che “omaggi e regalie rientranti nell’ambito di un normale rapporto di amicizia tra Formigoni e Daccò”.
VACANZE ESCLUSIVE
I giudici rilevano che gli “ingenti capitali” investiti da Daccò e Simone per garantire a Formigoni “vacanze in località esclusive, disponibilità di imbarcazioni di lusso, uso di dimore di pregio, un altisimo tenore di vita, cene di rappresentanza e viaggi su voli privati, del tutto esorbitanti un qualsiasi rapporto di amicizia, sia pure con persone molto facoltose”. Anche perché, sostengono i magistrati, “vi è un quai parallelismo tra le erogazioni alle due fondazioni e l’erogazione delle utilità”. Un esempio: le vacanze di Capodanno 2006-2007 di cui ha beneficiato il Celeste “sono coeve all’intervento di Formigoni per la reintroduzione delle funzioni non tariffabili”. Ancora: Formigoni “fruisce del grosso delle utilità – vacanze, viaggi, contanti, villa in Sardegna – da Capodanno 2007 in poi” e proprio in quell’anno si verifica l’intervento del governatore “per garantire che la legge no profit venga approvata con un testo favorevole a Maugeri e San Raffale in difficoltà economiche”

Celentano difende Raggi: “I partiti la temono perché pensano che farà un miracolo a Roma”

“Tra un po’ si andrà a votare e io sono preoccupato”. Esordisce così Adriano Celentano sul suo blog, con uno sfogo politico che va dall’endorsement alla sindaca di Roma, Virginia Raggi al caso di Ester Pasqualoni, l’oncologa accoltellata a morte davanti all’ospedale Val Vibrata di Sant’Omero, in provincia di Teramo, da uno stalker che da tempo la perseguitava.


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Il molleggiato traccia un quadro generale della politica “allo sbando”. Non a caso il titolo del suo intervento sul blog è proprio ‘Sbando’.

“I partiti hanno smarrito la strada – scrive Celentano – Non sanno dove prendere i voti. Le banche si fanno prestare i soldi dai piccoli risparmiatori e poi non glieli restituiscono più. Gli arrampicatori pretendono che Virginia Raggi, in quattro e quattr’otto, risollevi Roma dalle macerie prodotte dai governi precedenti. O forse, è proprio quello che temono: che sia lei, l’unica in grado di realizzare il miracolo. Fatto sta che il mondo politico è allo sbando, e forse qualche sbandamento l’ha avuto anche il capo della polizia visto che ha dichiarato che l’orribile delitto ai danni dell’oncologa rappresenta una vera e propria sconfitta per le istituzioni. La povera Ester viveva in uno stato di angoscia insostenibile, perseguitata da mesi giorno e notte, a niente sono servite le continue denunce alle forze dell’ordine sistematicamente archiviate perché ‘purtroppo’ la donna era ancora ‘viva’”.
“Ma ora che lei non c’è più – prosegue il cantante – finalmente la polizia potrà muoversi senza alcun indugio in modo seriamente determinante. Mi domando se l’evidente sconquasso della politica non sia dovuto al fatto che i governi, una volta raggiunto il ‘potere sognato’, non pensino altro che alla loro vanagloria anziché dare la priorità all’unica cosa davvero essenziale. La certezza della pena. A cosa serve la crescita, il posto assicurato se poi, finita la giornata lavorativa, esci e ti uccidono? E a cosa serve il posto di lavoro se poi gli stessi lavoratori (in tutti i settori) non eseguono con coscienza il loro lavoro? Non è l’articolo 18 che difende i lavoratori. Semmai è proprio il ’18’ a creare una vera e propria schiera di scellerati. Perché i tanto vituperati padroni dovrebbero licenziare qualcuno se questo qualcuno fa il proprio dovere con coscienza? Non è vero che l’esempio viene dall’alto. L’esempio, quello vero, in grado di correggere anche quelli in alto, viene dal basso”, conclude Celentano.

Fonte: http://www.adnkronos.com/fatti/politica/2017/06/23/politica-celentano-sul-blog-tra-difesa-raggi-caso-oncologa-teramo_ZKlj7l1d6h8fkygPuB1CfO.html

Grazie al M5S, è finita la pacchia di "Casta" crociere

Ricordate? Tra i mille privilegi contro cui il M5S si batte dal primo giorno, c’è la “Camera con vista” di cui vi avevamo raccontato in questo post.


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In pratica, la Camera dei Deputati nelle sue mille voci di bilancio ne aveva una che prevedeva i “rimborsi di viaggio agli ex parlamentari”. Soldi vostri (sia chiaro) con cui la Casta offriva graziosamente treni e aerei ai suoi ex membri, per godersi sì la meritata pensione ma sempre e come d’abitudine a scrocco.

Ebbene, ci sono voluti due anni e rotti ma alla fine l’hanno capita: ieri, grazie ad un emendamento a prima firma Luigi Di Maio, finalmente la Camera ha approvato lo stop a questo sconcio che costava al contribuente 900 mila euro l’anno. E i parlamentari in carica, grazie ad un altro emendamento di Edera Spadoni, voleranno in classe economy invece di sperperare quattrini in prima classe.

E’ la fine della Casta Crociere: se il pensionato (d’oro) ex parlamentare vuol farsi la vacanza, o se il deputato in carica vuol viaggiare stile sceicco, che se lo paghino coi soldi loro.

Fonte: http://www.movimento5stelle.it/parlamento/2015/08/grazie-al-m5s-e-finita-la-pacchia-di-casta-crociere.html

M5S tagliato fuori dalla commissione d’inchiesta sulle banche, Paragone: ‘Facciamo casino il 4 ottobre’


GUARDA IL VIDEO:




Riportiamo di seguito il videocommento di Gianluigi Paragone su Facebook in merito alla nomina di Pierferdinando Casini a presidente della commissione d’inchiesta sulle banche. Il M5S, denuncia il giornalista, è stato tagliato fuori da questa commissione:
“Lo hanno fatto veramente, pensa la lungimiranza di questa maggioranza.
Hanno appena nominato come presidente della commissione di inchiesta sul settore bancario Pierferdinando Casini. Verrebbe subito da fare la battuta che non puoi che mettere Casini su una commissione di inchiesta che deve fare luce sui casini delle banche.
Ma, battute a parte, la dichiarazione di Casini prima che si cominciasse a strutturare la commissione di inchiesta stessa è stata: “Farla è demagogia, sarebbe rischiosa propaganda, no a casse di risonanza di polemiche tra i partiti.
Uno che parlava così, secondo voi quale testa ci metterà nel fare veramente chiarezza sulle vicende che hanno coinvolto le banche. Ma non soltanto le banche, perché quello per me è interessante, che hanno coinvolto i risparmiatori.
La commissione di inchiesta è un bluff: Renzi non la voleva, il Partito Democratico non la voleva, l’hanno fatta soltanto perché spinti.
L’altro vicepresidente, si chiama Marino, è uno del Pd, l’altro, sono due, è Brunetta, che mi auguro faccia un po’ di casino.
Ma mi puzza un fatto: tagliato fuori completamente il M5S: tagliato completamente, neanche un segretario gli hanno dato. Fa parte ovviamente della commissione di inchiesta, ma negli organi collegiali non c’è. Forse perché ha cominciato a far casino fin da subito sulle banche, sul riordino del settore bancario, sulla chiarezza piena di quello che i banchieri hanno combinato in questi anni?
Allora ragazzi, io vi invito il 4 ottobre a venire a Roma, perché bisogna fare veramente casino, bisogna alzare la voce per dire alla politica e a questa maggioranza che non può permettersi di sottacere, di anestetizzare, di far scomparire quello che è successo nel mondo del risparmio italiano.
Qui ci sono risparmiatori truffati, quindi facciamo casino il 4 ottobre, facciamoci vedere, facciamo vedere che siamo lì, siamo accanto a questi risparmiatori.”

Impreparati, incompetenti, immaturi: il ceto politico non è mai stato così ignorante

Non si è mai visto un ceto politico così ignorante. Laureati compresi. Colpa della scuola? O di una selezione al contrario? La democrazia rischia di non funzionare se conferisce responsabilità di comando a persone palesemente impreparate


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Nel governo Gentiloni più di un ministero è presidiato da non laureati e non laureate: istruzione e salute, lavoro e giustizia. Se questa non è forse la “prevalenza del cretino” preconizzata da Fruttero e Lucentini, è di certo la prevalenza dell’ignorante.

Infatti la legislatura attuale ha una percentuale di laureati tra le più basse della storia: di poco sopra il 68 per cento, un dato che mette tristezza a confronto col 91 per cento del primo Parlamento repubblicano… Qualche settimana fa la Repubblica ha offerto lo sfondo a questo spettacolo, mostrando con tanto di tabelle che la riforma universitaria detta “del 3+2”, testardamente voluta nel 2000 dai non rimpianti ministri Berlinguer e Zecchino al grido di “l’Europa ce lo chiede!”, è stata un fiasco. I laureati sono pochi, non solo nel ceto politico ma nel paese, in calo perfino rispetto a quelli del 2000, ultimo anno prima della riforma. L’età media del laureato italiano è superiore ai 27 anni e la laurea triennale non serve (salvo che per gli infermieri) a nulla. I giovani che concludono il ciclo di 5 anni (il “3 + 2”) sono addirittura meno del totale di quelli che vent’anni fa si laureavano coi vecchi ordinamenti (durata degli studi 4, 5 o 6 anni). Per giunta, per completare la laurea triennale ci vogliono 4,9 anni, per quella quinquennale più di 7,4! Quindi, l’obiettivo principale della riforma, che era quello di aumentare il tasso di laureati, è mancato.

Le cause? Certamente non sono quelle che ha suggerito, nel suo intervento a Cernobbio agli inizi di settembre, la non laureata ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli: la colpa dei pochi laureati, ha suggerito (lei ex sindacalista!), è delle «famiglie a basso reddito», che non trovano più buoni motivi per spingere i figli a laurearsi. Non ha pensato, non avendolo frequentato, che invece è tutto il sistema universitario che andrebbe, come le case abusive, abbattuto e riprogettato. Quindi, se il paese è conciato così, come possiamo pretendere che il personale politico sia meglio?

Ma non è finita. Un altro guaio, più serio, sta nel fatto che il ceto politico attuale, e ancor più (si suppone) quello che gli subentrerà al prossimo turno, ha un record unico nella storia d’Italia, di quelli che fanno venire i brividi: i suoi componenti, avendo un’età media di 45,8 anni (nati dunque attorno al 1970), sono il primo campione in grandezza naturale di una fase speciale della nostra scuola, che solo ora comincia a mostrare davvero di cosa è capace. Perché dico che la scuola che hanno frequentato è speciale? Perché è quella in cui, per la prima volta, hanno convissuto due generazioni di persone preparate male o per niente: da una parte, gli insegnanti nati attorno al 1950, formati nella scassatissima scuola post-1968; dall’altra, quella degli alunni a cui dagli anni Ottanta i device digitali prima e poi gli smartphone hanno cotto il cervello sin dall’infanzia.

I primi sono cresciuti in una scuola costruita attorno al cadavere dell’autorità (culturale e di ogni altro tipo) e della disciplina e all’insofferenza verso gli studi seri e al fastidio verso il passato; i secondi sono nati in un mondo in cui lo studio e la cultura in genere (vocabolario italiano incluso) contano meno di un viaggio a Santorini o di una notte in discoteca.

Prodotta da una scuola come questa, era forse inevitabile che la classe politica che governa oggi il paese fosse non solo una delle più ignoranti e incompetenti della storia della Repubblica, ma anche delle più sorde a temi come la preparazione specifica, la lungimiranza, la ricerca e il pensiero astratto, per non parlare della mentalità scientifica. La loro ignoranza è diventata ormai un tema da spot e da imitazioni alla Crozza. I due fattori (scarsità di studi, provenienza da una scuola deteriorata), mescolati tra loro, producono la seguente sintesi: non si è mai visto un ceto politico così incompetente, ignorante e immaturo.

I risultati sono sotto gli occhi di tutti, nelle parole, le opere e le omissioni. Si dirà, come al solito, che il grande Max Weber lo aveva profetizzato già nel famoso saggio sulla Politica come professione (1919): «lo Stato moderno, creato dalla Rivoluzione» spiega «mette il potere nelle mani di dilettanti assoluti […] e vorrebbe utilizzare i funzionari dotati di preparazione specialistica solo come braccia operative per compiti esecutivi». Ma il povero Max non poteva prevedere le novità cool dei nostri tempi: per dirne una, la rabbiosa spinta che il movimento di Beppe Grillo avrebbe dato alla prevalenza dell’incompetente.

La cosa è talmente ovvia che nel 2008 la ministra Marianna Madia, eletta in parlamento ventiseienne, non ancora laureata, dichiarò che la sola cosa che portava in dote era la sua “inesperienza” (sic).




La lista che ho appena fatto non contiene solo piccoli fatti di cronaca. Se si guarda bene, è una lista di problemi, perché suscita due domande gravi e serie. La prima è: a cosa dobbiamo, specialmente in Italia, quest’avanzata di persone che, oltre che giovanissime, sono anche I-I-I (“incompetenti, ignoranti e immaturi”)? È la massa dei somari che prende il potere, per una sorta di tardivo sanculottismo culturale? Sono le “famiglie di basso reddito” della Fedeli, ormai convinte che i figli, invece che farli studiare e lavorare, è meglio spingerli in politica? Oppure è l’avanzata di un ceto del tutto nuovo, quello dell’uomo-massa, di cui José Ortega y Gasset (in La ribellione delle masse) descriveva preoccupato l’emergere?

«L’uomo-massa si sente perfetto» diceva Ortega y Gasset, aggiungendo che «oggi è la volgarità intellettuale che esercita il suo imperio sulla vita pubblica». «La massa, quando agisce da sola, lo fa soltanto in una maniera, perché non ne conosce altre: lincia». È una battutaccia da conservatore? Oppure la dura metafora distillata da un’intelligenza preveggente? Comunque la pensiate, queste parole non sono state scritte oggi, ma nel 1930. Forse l’avanzata della «volgarità intellettuale» era in corso da tempo e, per qualche motivo, non ce ne siamo accorti.

La seconda domanda seria è la seguente: la democrazia può funzionare ancora se conferisce responsabilità di comando a persone dichiaratamente I-I-I? Forse in astratto sì, se è vero che (come pensava Hans Kelsen) la democrazia è «il regime che non ha capi», nel senso che chiunque può diventare capo. In un regime del genere, quindi, chiunque, anche se del tutto I-I-I e appena pubere, può dare un contributo al paese. Napoleone salì al vertice della Francia a 29 anni e Emmanuel Macron (suo remoto emulo, dileggiato dagli oppositori col nomignolo di Giove o, appunto, di Napoleone) è presidente della Repubblica a 39. Nessuno di loro aveva mai comandato le armate francesi o governato la Repubblica.






Lo Stato che non paga i debiti: 43 miliardi tolti alle imprese


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L’innovazione tecnologica è una realtà così potente che può distruggere molte industrie al suo passaggio. L’email ha travolto la posta cartacea, gli smartphone hanno reso inutili gli orologi e le fotocamere, e un’invenzione semplice come un foglio elettronico di dati connessi a una piattaforma sta mettendo a dura prova un materiale d’ufficio da sempre molto usato in migliaia di amministrazioni pubbliche. Non è la carta a quadretti. È l’opacità.

Questa settimana il ministero dell’Economia ha mosso un piccolo passo che equivale a un salto da gigante per la trasparenza in Italia: ha messo in Rete, sul proprio sito, l’elenco di tutti gli enti pubblici che chiedono forniture alle imprese, delle fatture che hanno ricevuto da queste nel 2016, delle somme dovute da ciascuno e di quelle che ciascuno ha fatto sapere di aver pagato. Lo stesso foglio digitale, all’ultima casella, informa sull’aspetto più delicato: dopo quanti giorni dalla fatturazione ed eventualmente con quanti giorni di ritardo rispetto ai termini di legge ogni amministrazione ha pagato i propri debiti verso le imprese.

In pochi clic, emerge un quadro clinico di tutto ciò che oggi è possibile conoscere. Le amministrazioni presentate sono 13.450 (una accorpa 8 mila scuole), l’anno scorso sono state fatturate dai fornitori somme per 158,9 miliardi di euro — il 9,45% del Prodotto interno lordo — e alla fine di questo mese dichiaravano di aver saldato 115,4 miliardi. In altri termini solo per il 2016, in base alle informazioni date dagli stessi enti debitori, oltre 43 miliardi di euro non sono stati ancora versati a chi ha lavorato perché lo Stato potesse avere qualche bene o servizio. Manca all’appello il 2,58% del Pil del 2016, giusto per dare un’idea del costo dei ritardi di pagamento per l’economia nazionale.

I debiti commerciali sui quali lo Stato è in ritardo restano più alti di così. È probabile che siano ben sotto i 90 miliardi stimati dalla Banca d’Italia nel 2013, quando i mancati pagamenti alle imprese avevano raggiunto livelli intollerabili. Ma la cifra appena resa nota dal ministero dell’Economia va pesata con cura: è plausibile che alcuni enti abbiano già pagato qualcosa ai fornitori senza poi segnalarlo a Siope, la piattaforma digitale del ministero dell’Economia; ma è certo che la banca dati non comprende i vecchi debiti residui del 2013, 2014 e 2015. Ed è un paradosso che dalla piattaforma manchino le posizioni verso i creditori di tutte le almeno ottomila imprese controllate dalle autorità locali: da quest’anno i loro conti vanno consolidati nei bilanci dei comuni o delle regioni che le possiedono, eppure le aziende stesse non sono (ancora) obbligate a fare trasparenza come gli enti.

Tutto ciò rende prudente una stima: nelle sue varie forme, lo Stato ha debiti commerciali arretrati verso le imprese per oltre 50 miliardi di euro. Almeno. Fosse così, sarebbero tre punti di Prodotto interno lordo sottratti (solo per ora, si spera) al settore produttivo.

Niente di tutto questo significa che il sistema sia bloccato come prima. Il lancio della piattaforma digitale Siope, la scelta di fare trasparenza su chi la abita e anche solo un’occhiata alle relative posizioni suggerisce il contrario. Dal governo e dalla Ragioneria generale dello Stato arriva una spinta a saldare i debiti e accorciare i tempi. E molte amministrazioni iniziano ad adeguarsi: non solo pagano nei tempi, ma adempiono all’obbligo di comunicarlo a Siope. Per esempio l’Istituto di previdenza Inps è stato fatturato per 1,2 miliardi nel 2016 e ha fatto sapere di aver pagato il 98% del dovuto con un ritardo medio di ulteriori 29 giorni oltre i termini di legge di 30 giorni. Il Senato doveva 36 milioni, anch’esso ha saldato il 98%, ha informato la Ragioneria e il suo ritardo medio è di tre giorni. Anche l’Istat è al 98% e ha un ritardo medio di tre giorni.

Poi ci sono gli altri. Sono quelli che risultano a zero: non un solo euro ufficialmente saldato ai fornitori per l’anno scorso. Malgrado l’obbligo di pagamento e malgrado l’obbligo di comunicazione alla Ragioneria dello Stato. Qui i casi sono tre: o sono inadempienti per non aver pagato, o lo sono per non averlo comunicato o lo sono per entrambe queste ragioni. In ogni caso gli enti di questa categoria sono numerosi, perché sugli oltre 13 mila della piattaforma poco meno di settemila non dichiarano il pagamento di un solo cent dei loro 9,7 miliardi in debiti commerciali accesi nel 2016. Fra questi figurano i soliti sospetti, i comuni in difficoltà del Sud: Catania che deve 194 milioni o Foggia 86. Quindi compaiono alcuni nomi eccellenti dei quali figurano i debiti verso i fornitori, ma non i saldi effettuati. Si va dalla Banca d’Italia (fatture per 327 milioni), alla Camera (93 milioni), alla Segreteria della Presidenza della Repubblica (16 milioni), al Garante della Concorrenza (9,8 milioni). Da verifiche del Corriere, tutte queste amministrazioni risultano relativamente in linea con i saldi ma per varie ragioni — interpretazioni di legge, adeguamenti informatici — la loro posizione non è aggiornata su Siope. La Banca d’Italia sta per aggiornare; il Quirinale ha pagato 4.143 delle sue 4.680 fatture del 2016 con 52 giorni di tempi medi; la Camera comunica di aver saldato 86 dei 93 milioni dovuti anche se — si spiega — non avrebbe aderito a Siope.

Quanto al governo in senso stretto, Palazzo Chigi più ministeri, il debito commerciale verso le imprese per il 2016 è di 3,5 miliardi. Dalla banca dati della Ragioneria, altri ritardatari (o inadempienti) illustri risultano l’Istituto per il commercio estero, l’Ente nazionale del turismo, l’Expo, l’Ente aviazione civile Enac, le due Aziende sanitarie locali di Milano (1 e 2). Senza parlare dell’Italia profonda: 911 Ordini professionali in tutte le categorie e città, più 90 Consigli notarili locali, più altri 90 Consigli di ordini territoriali sembrano non aver pagato un solo euro. Dalle associazioni degli ingegneri, agli architetti, agli agronomi, ai notai, agli avvocati e geometri. Eppure la trasparenza digitale può solo aiutare i loro iscritti che forniscono lavoro e prodotti allo Stato.

mercoledì 27 settembre 2017

Quando a Roma il PD bruciò 30 milioni di euro per un campo da rugby


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Via Pontina, la strada che collega la capitale al litorale romano doveva essere la città del rugby,” spiega il servizio che potete vedere nel video.
“Le strutture previste erano un campo da rugby e un campo da calcio. Poi davanti abbiamo altre aree fitness e anche appartamenti uso foresteria per gli atleti del rugby. Un investimento colossale, fatto al 95% dal Comune di Roma,” spiega l’intervistato alla giornalista, che aggiunge:
“La banca ha dato 30 milioni di euro a questo imprenditore, ha cominciato i lavori e poi è stato tutto abbandonato.”

Il progetto nasce del 2004 con una delibera della giunta Veltroni- continua la reporter – ed è “abbandonato in queste condizioni dal 2013.”
“Il concessionario è decaduto e il Comune di Roma adesso si ritrova un debito per questi finanziamenti che sono stati concessi da 30 milioni di euro al quale dovrà far fronte. Ed inoltre è un’opera pubblica completamente devastata e abbandonata.”
Di aree come queste, spiega il servizio, “ce ne sono settanta, e si chiamano punti verde qualità. Il meccanismo funzionava così: il Comune dava un terreno gratis a un costruttore e garantiva con la banca il mutuo necessario al costruttore per effettuare i lavori. Poi l’imprenditore non pagava il mutuo e il Comune si ritrovava con un debito milionario.
Tutto questo per un totale di 600 milioni. Dei 600 milioni di euro su cui il Comune di Roma ha dato le fideiussioni alle banche a garanzia degli imprenditori, 130 milioni sono andati completamente persi, perché le imprese non stanno pagando i mutui e le aree sono in completo abbandono. E dei settanta punti verde qualità concessi pari a 184 ettari, solo 17 sono attualmente funzionanti”.

Guarda il video:

Marco Travaglio: "Philip Laroma Jezzi ministro subito!"


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(di Marco Travaglio – Il Fatto Quotidiano) – Se fossimo candidati a premier, ci precipiteremmo a Firenze, nello studio dell’avvocato-ricercatore-docente associato di Diritto tributario Philip Laroma Jezzi, 49 anni, madre inglese e padre italiano. E lo imploreremmo di accettare l’incarico di prossimo ministro della Pubblica Istruzione, Università e Ricerca scientifica. Non solo perché, diversamente dalla titolare attuale, una laurea ce l’ha davvero, non millantata sul curriculum. Ma anche perché, rara avis in un mondo accademico dove tutti sanno tutto della mafia dei concorsi truccati, ha violato la regola dell’omertà, ha registrato di nascosto e respinto le proposte indecenti dei baroni (“smetti di fare l’inglese e fai l’italiano”), ha denunciato tutto alla Gdf, si è rivolto al Tar per ottenere la qualifica di associato che meritava per il suo talento. E ha vinto su tutta la linea: ora è associato perché è bravo, non perché ha santi in Paradiso; chi voleva costringerlo a genuflettersi per elemosinare come favore ciò che gli spettava come diritto è agli arresti o sotto inchiesta; e ora chi ha vissuto, vive o vivrà un’odissea come la sua sa che esiste un’alternativa alla prostituzione e all’espatrio. Non solo per gli “inglesi”. Ma pure per gli italiani. Il fatto poi che questo hombre vertical sia un abbonato al Fatto ci rende doppiamente orgogliosi, visto che ai valori costituzionali di eguaglianza e legalità abbiamo votato il nostro giornale  scrive Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano nell’editoriale di oggi 27 settembre 2017, dal titolo “Philip ministro subito”.

L’altroieri, quando si è saputo che all’origine della retata fiorentina c’era lui, ci siamo ricordati della lettera che Philip ci aveva inviato un paio d’anni fa e l’abbiamo ritrovata in archivio: “Caro direttore, ho letto un suo editoriale e come sempre mi ha appassionato: è vero, la ‘mafia legale’ (io conosco bene quella universitaria, di cui il caso di Bari ‘non è altro’ che la regola) è ovunque. L’unica cosa che non condivido è la scelta che avrebbero i migliori (non che io pensi di essere tra questi): ‘O si prostituiscono anch’essi per ottenere come favore ciò che spetta loro di diritto o emigrano nel privato (anch’esso inquinato dagli stessi malvezzi); o espatriano’. Nel mio piccolo, a fronte della richiesta del direttore dell’Agenzia delle Entrate di Firenze di soldi per avere una corsia preferenziale, in sequenza ho detto no; ho fatto un esposto in Procura; sono stato nominato ausiliario di giustizia dal pm collaborando con la Guardia di Finanza… a raccogliere prove schiaccianti del ‘sistema’ gestito dal dirigente che è quindi stato arrestato… Io sono nato nel Regno Unito e metà della famiglia è di là. Ho studiato (bene e tanto) sia in Italia che a Londra… Ma piuttosto che fare ‘l’italiano in Inghilterra’ ho preferito fare ‘l’inglese in Italia’”.

E concludeva: “In questo modo riesco, con molta più facilità, a distinguermi, a essere eccentrico. Non ho bisogno di fare il punk, mi basta fermarmi alle strisce pedonali. Ecco la quarta via rispetto a quelle da lei indicate: ‘fermarsi alle strisce’”. Gli avevo risposto: “Caro Philip, grazie: la ‘quarta via’ era proprio quella che speravo di sollecitare con la provocazione del mio articolo”. Non potevo sapere che quello spettacolare “piuttosto che fare l’italiano in Inghilterra, ho preferito fare l’inglese in Italia” era una citazione testuale del suo colloquio col barone che tentava di farlo ritirare dal concorso per non disturbare i ciucci raccomandati che dovevano vincerlo.

Ora naturalmente la ministra vuole fare chiarezza, come se non lo sapessero tutti che i concorsi, anche universitari, sono quasi tutti truccati. E i magnifici rettori, ovviamente portati lì dalla cicogna, fingono sdegno per un sistema che tutti (migliaia di persone) conoscono e coprono, venendone premiati come ministri (tipo Fantozzi, quello che proponeva “una nuova cupola” per pilotare meglio i concorsi) e “saggi costituenti” contro la Costituzione. Almeno finché qualcuno non accende il registratore. In questa fiera del tartufo, ci siamo giocati intere generazioni di giovani che tentano la carriera scientifica pensando che basti studiare, lavorare, inventare, ragionare. Poi vedono i soliti noti saltare la fila e capiscono. E, come Philip, si sentono ripetere dai baroni che dovrebbero insegnare Diritto (!): “Non è che non sei idoneo, è che non rientri nel patto del mutuando”, “tu sei uno stronzo, ma come intelligenza e laboriosità vali il doppio degli altri, però devi ritirarti”, “se fai ricorso ti giochi la carriera, invece se accetti ti facciamo scrivere un paio di articoli così reimposti il tuo curriculum e vieni abilitato nella prossima tornata”, “qui non siamo sul piano del merito: è stata fatta una lista e tu non ci sei”, “ci sono delle insufficienze e tutti quanti sono passati con l’unanimità perché si fanno dei ragionamenti sugli equilibri complessivi“, “non capisco la tua scelta di non ritirarti dopo che ti era stato dato il messaggio di ritirarti… la consapevolezza di com’era orientata la commissione”, “funziona così: a ogni richiesta di un commissario corrispondono tre richieste degli altri commissari: io ti chiedo Luigi e allora tu mi dai Antonio, tu mi dai Nicola e tu mi dai Saverio”, “ogni professore aiuta l’altro”, “non è che si dice ‘è bravo o non è bravo’: no, si fa ‘questo è mio, questo è tuo, questo deve andare avanti’”. E se qualcuno ancora non capisce, pensando di farcela con le proprie gambe, lo stroncano subito con una pacca sulle spalle: “La logica universitaria è questa… è un mondo di merda, purtroppo è un do ut des, tu mi fai questi a Napoli ed io ti do…”, “è il vile commercio dei posti”.
E così, al suo primo incontro con lo Stato, il giovane cittadino diventa subito suddito, formattato per la vita. O piega la schiena, portando il suo primo bicchier d’acqua al mulino della Repubblica della Corruzione; oppure cambia mestiere, o Paese.
Philip Laroma Jezzi ha scelto la quarta via: s’è rivolto ai giudici e ha ottenuto ciò che gli spettava. Ministro subito.

Il Pd è in rosso, ma il treno di Renzi che vuole toccare tutte le province italiane costa 400mila euro

l Partito democratico ha i conti in rosso, ma il treno di Matteo Renzi che vuole toccare tutte le province italiane costa 400mila euro



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In pieno stile renziano, pure stavolta si fa tutto all’ultimo momento. Oltre ai problemi organizzativi e strategici, la prima questione da affrontare sono i soldi, visto che il Pd ha 184 dipendenti in cassa integrazione e un bilancio in rosso di 9,5 milioni di euro, buco lasciato dalla campagna per il Sì al refernedum costituzionale di dicembre


Ma come sarà il treno di Renzi?

Per adesso, si sa che il treno (arrivato a Roma nei giorni scorsi) sarà composto da 5 vagoni, tra cui uno adibito a sala stampa e uno come sala riunioni. E che non si tratterà di carrozze speciali, ma di quelle di un intercity appositamente riadattate per utilizzi charter. Il Pd lo prenderà in affitto da Trenitalia a prezzo di mercato. E dunque, per il calcolo dei costi complessivi il riferimento è proprio il listino della società. Per il quale il costo dell’affitto varia tra i 20 e i 44 euro a chilometro e dipende da una serie di parametri che concorrono a determinare il valore complessivo tra cui ad esempio: la tipologia di materiale rotabile, l’infrastruttura utilizzata (rete Alta velocità o convenzionale), la qualità dei servizi richiesti a bordo e in stazione, il numero di persone impiegato (…) Facendo un conto a spanne su una percorrenza media di 150 chilometri al giorno – a un prezzo intermedio (facciamo per comodità 33 euro a chilometro) per i 45 giorni del tour (durata minima ma potrebbe arrivare a 2 mesi) – si parte da poco meno di 250mila euro, prezzo che può lievitare facilmente se i chilometri percorsi e i giorni del tour aumentano (…) E i costi aumentano e possono arrivare facilmente a 400mila euro o anche più su

fonte: huffpost

Atac, ha vinto la Raggi: "Il Tribunale fallimentare approva il concordato"

Raggi entusiasta: “Oggi inizia la rinascita per l’azienda dei trasporti”



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Il tribunale fallimentare ha ammesso Atac al concordato, accogliendo la richiesta che la società dei trasporti ha presentato lo scorso 18 settembre. Nominati i tre commissari che dovranno vagliare il piano della municipalizzata: si tratta di Raffaele Lener, docente di diritto commerciale della Luiss, Giuseppe Sancetta, professore di Economia e gestione delle imprese alla Sapienza e Luca Gratteri, dell’Università di Pavia.

Atac ha diffuso una nota in cui annuncia che da questo momento in poi potrà riprendere la piena operatività. Il termine concesso dal Tribunale all’azienda per la presentazione del piano è di 60 giorni, dunque la scadenza per Atac sarà il 27 novembre. Da quel momento in poi, il Tribunale avrà altri due mesi per valutare la proposta ed esprimersi in merito.
“Oggi inizia il procedimento di rinascita di Atac, l’azienda pubblica di trasporti di Roma. Il Tribunale ha ammesso la procedura di concordato preventivo in continuità: si tratta del via libera ad un programma che punta a migliorare le linee, gli autobus, la metropolitana, ridurre i tempi d’attesa, dare ai cittadini i servizi che chiedono, tutelare i dipendenti. È la vittoria dei cittadini” ha commentato il sindaco di Roma Virginia Raggi.


“Ora possiamo portare a compimento quella rivoluzione nel trasporto pubblico che i romani attendono da decenni – ha proseguito Raggi – In questi mesi abbiamo responsabilmente lavorato ad un progetto che secondo i giudici può essere percorribile. Abbiamo avuto il coraggio di intraprendere una strada per mantenere Atac saldamente in mano pubblica tutelando i lavoratori ed evitando lo spettro della privatizzazione invocato o sostenuto da altre forze politiche. Continueremo a lavorare insieme al Tribunale per rendere Atac una società sana ed efficiente. Non ci fermeranno le polemiche di chi vuole svendere la principale azienda di trasporto pubblico d’Europa, un patrimonio che appartiene a noi romani. Le polemiche di chi ha accumulato 1 miliardo e trecento milioni di debiti e ha anche la faccia tosta di fare la morale”, ha concluso il sindaco.







martedì 26 settembre 2017

Raggi, svolta storica: " Interlocuzione con la Chiesa per pagamento dell’Imu"

Virginia Raggi: "Avviata interlocuzione con Papa Francesco per imu sugli immobili"


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“È stata avviata una interlocuzione con la Chiesa per pagamento dell’Imu sugli immobili commerciali”, ammette l’assessore al Bilancio Andrea Mazzillo, precisando però che la trattativa è solo all’inizio perché “la Santa Sede è uno stato estero” e dunque sarebbe stato prematuro inserire il presunto introito nel documento di programmazione finanziaria appena varato in giunta. Ma “c’è l’impegno formale da parte delle autorità ecclesiastiche di definire questa situazione”, assicura il giovane responsabile dei conti.

Di più però dice l’assessore alle Attività Produttive Adriano Meloni: “Nel corso del loro ultimo incontro, Virginia lo ha chiesto direttamente al Papa e lui si è dimostrato disponibile”. Dunque il contenzioso tra Roma e il Vaticano è stato affrontato ai massimi livelli. In linea con quanto affermato da Francesco due anni e mezzo fa, quando, aprendo l’ennesimo fronte interno, disse con chiarezza: “I conventi vuoti non servono alla Chiesa per trasformarli in alberghi e guadagnare soldi”. (FONTE: Repubblica.it

“Tangenti alla presidenza del consiglio”.L'inchiesta choc de “Le Iene” ignorata da tutti.


GUARDA IL VIDEO DE "LE IENE":




Il programma tv “Le Iene“, in onda su Italia 1 in prima serata, ha intervistato un anonimo che ha riferito di un giro di mazzette nella Presidenza del Consiglio. Lo scopo? Vincere gare di appalto.

La persona, che vediamo incappucciata nel filmato, lavorava per un’azienda di forniture proprio per la Presidenza del Consiglio. L’uomo parla, senza troppi giri di parole, di “mazzette per vincere gare di appalto“.
Lo show di Italia1 riferisce anche che il dipendente dispone di “prove scritte” per confermare tutte le accuse sulle varie mazzette.
La dichiarazione dell’anonimo:

“Ho ricevuto minacce, ho paura. Un signore mi ha puntato un coltello alla gola, ho trovato fogli con intimidazioni. Sanno che io so e sanno che potrei raccontare”.
Il finale del servizio è sconvolgente: l’uomo racconta di essere stato minacciato di recente e di aver deciso proprio per questo di raccontare la verità.

A distanza di ben due anni da questo scoop ci chiediamo; Che fine ha fatto l'inchiesta? Noi continueremo a tenere viva la memoria degli italiani pubblicandolo anche un miliardo di volte questo video. meritiamo una verità una volte per tutte

Sapete perché hanno chiuso La Gabbia di Paragone? Uno dei motivi principali è in questo video clamoroso!


GUARDA IL VIDEO INCRIMINATO:




A confermare la notizia al fattoquotidiano.it è lo stesso conduttore. Una vera doccia fredda per i giornalisti, gli autori e gli operatori che hanno appreso la notizia della cancellazione del programma solo nel pomeriggio durante una riunione

Una vera doccia fredda per i giornalisti, gli autori e gli operatori che lavorano a La Gabbia: hanno appreso la notizia della cancellazione del programma solo nel pomeriggio durante una riunione con lo stesso Paragone. Nato nel 2013, il programma andava originariamente in onda ogni domenica per poi essere spostato nella prima serata di mercoledì. In quattro anni Paragone ha condotto più di 160 puntate con uno share medio tra il 3,10 e il 3,80%.


Il motivo? Tutte le grandi inchieste di Paragone che riguardavano sopratutto L'Euro e Europa. Non sono piaciuti a qualcuno li in allto. Quando il padrone chiama, il servo obbeisce. Cosi ha fatto Cairo.

Marco Travaglio: "In qualunque altro Paese uno come Renzi sarebbe stato assediato dal popolo"

HANNO LA FACCIA COME IL CULO – TRAVAGLIO: “IN QUALUNQUE ALTRO PAESE, UN PREMIER CHE PER MESI GIURA DI LASCIARE LA POLITICA IN CASO DI SCONFITTA, SAREBBE ASSEDIATO – GENTILONI È UN BRAV’UOMO TENDENZA SUGHERO, UN GALLEGGIANTE CHE NON DISTURBA, NON SPORCA, DOVE LO METTI STA. PIÙ CHE UN PREMIER, UNA PIANTA GRASSA”


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Marco Travaglio per il Fatto Quotidiano – ESTRATTO

Tra i tanti fiaschi collezionati da Renzi nei tre anni della sua avventura politica nazionale, il più bruciante per lui è la scoperta che nessuno l’ ha mai preso sul serio (a parte i lacchè e sciuscià della cosiddetta informazione, che peraltro hanno già messo a riposo le lingue in attesa del successore).

In qualunque altro Paese, un premier che per mesi giura di ritirarsi a vita privata, andare a casa, lasciare la politica e cambiare mestiere in caso di vittoria del No al referendum, sarebbe assediato dal suo e dagli altri partiti, dai suoi e dagli altrui elettori, e ovviamente dai media, con domande del tipo: “Perché ha mentito al popolo italiano? Con quale credibilità pensa di presentarsi alle prossime elezioni? Che aspetta a tornarsene a Pontassieve e a scomparire per sempre dalla circolazione?”.

Invece niente: evidentemente tutti, mentre pronunciava quei solenni giuramenti, già sapevano che erano tutte balle. Il che, per uno che voleva cambiare la politica, l’ Italia, l’ Europa, ma non riesce a cambiare mestiere (forse perché non ne ha mai avuto uno), è il peggiore dei fallimenti.

E così per la sua corte dei miracoli e miracolati. Pensate al discredito che travolgerebbe Cameron se, dopo aver promesso il ritiro in caso di Brexit, fosse rimasto alla guida dei conservatori con la scusa che il Remain ha avuto il 48,1% dei voti. E alle risate che seppellirebbero la Clinton, se fosse ancora lì che rompe perché ha preso più voti di Trump.

Ma quelli sono paesi seri. In Italia si dà per scontato che il premier sia un pagliaccio. Infatti si trova normale che Renzi si appropri del 40% dei Sì e che al suo governo Renzi segua un Renzi-bis (patrocinato per giorni dai giornaloni) e, tramontato quello, che il premier uscente ma non uscito faccia le consultazioni a Palazzo Chigi manco fosse Mattarella e pretenda di scegliere i ministri-chiave del nuovo governo, di ricicciare addirittura la Boschi e di imbullonare il suo clone Lotti alla poltrona di sottosegretario per governare i servizi segreti, l’ editoria e i dossier “sensibili”.

Ora, probabilmente, nascerà un governicchio Gentiloni con la stessa maggioranza (l’ unica possibile in questo Parlamento illegittimo di nominati e voltagabbana). È la soluzione non migliore (il meglio non ha più cittadinanza in Italia da decenni), ma meno peggiore. Paolo Gentiloni è un brav’uomo tendenza sughero, un galleggiante che non disturba, non sporca, dove lo metti sta. Più che un premier, una pianta grassa. L’ ideale per la decantazione dopo tante risse fra e nei partiti, soprattutto il Pd.

Purché non sia un prestanome e duri poco.

Oltre giugno non sarebbe igienico andare, per due motivi: a) questo è il quarto governo nato all’ insaputa degli elettori in cinque anni; b) prima di sei mesi è improbabile che il Parlamento faccia la legge elettorale. È vero che i governi non possono avere date di scadenza.

Ma, vista la situazione eccezionale, i partiti dovranno trovare il modo di dargliene una, entro la quale dovranno fare senza tante discussioni ciò che va fatto subito. Che, attenzione, non è la legge elettorale: quella non è compito del governo, ma del Parlamento, su proposta della maggioranza, ma coinvolgendo le opposizioni o almeno parte di esse. Di leggi elettorali fatte dai governi per far perdere gli avversari ne abbiamo avute due in 10 anni, il Porcellum e l’ Italicum, e sappiamo come sono finite. Sconsiglieremmo di riprovarci.