giovedì 28 settembre 2017

Lo Stato che non paga i debiti: 43 miliardi tolti alle imprese


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L’innovazione tecnologica è una realtà così potente che può distruggere molte industrie al suo passaggio. L’email ha travolto la posta cartacea, gli smartphone hanno reso inutili gli orologi e le fotocamere, e un’invenzione semplice come un foglio elettronico di dati connessi a una piattaforma sta mettendo a dura prova un materiale d’ufficio da sempre molto usato in migliaia di amministrazioni pubbliche. Non è la carta a quadretti. È l’opacità.

Questa settimana il ministero dell’Economia ha mosso un piccolo passo che equivale a un salto da gigante per la trasparenza in Italia: ha messo in Rete, sul proprio sito, l’elenco di tutti gli enti pubblici che chiedono forniture alle imprese, delle fatture che hanno ricevuto da queste nel 2016, delle somme dovute da ciascuno e di quelle che ciascuno ha fatto sapere di aver pagato. Lo stesso foglio digitale, all’ultima casella, informa sull’aspetto più delicato: dopo quanti giorni dalla fatturazione ed eventualmente con quanti giorni di ritardo rispetto ai termini di legge ogni amministrazione ha pagato i propri debiti verso le imprese.

In pochi clic, emerge un quadro clinico di tutto ciò che oggi è possibile conoscere. Le amministrazioni presentate sono 13.450 (una accorpa 8 mila scuole), l’anno scorso sono state fatturate dai fornitori somme per 158,9 miliardi di euro — il 9,45% del Prodotto interno lordo — e alla fine di questo mese dichiaravano di aver saldato 115,4 miliardi. In altri termini solo per il 2016, in base alle informazioni date dagli stessi enti debitori, oltre 43 miliardi di euro non sono stati ancora versati a chi ha lavorato perché lo Stato potesse avere qualche bene o servizio. Manca all’appello il 2,58% del Pil del 2016, giusto per dare un’idea del costo dei ritardi di pagamento per l’economia nazionale.

I debiti commerciali sui quali lo Stato è in ritardo restano più alti di così. È probabile che siano ben sotto i 90 miliardi stimati dalla Banca d’Italia nel 2013, quando i mancati pagamenti alle imprese avevano raggiunto livelli intollerabili. Ma la cifra appena resa nota dal ministero dell’Economia va pesata con cura: è plausibile che alcuni enti abbiano già pagato qualcosa ai fornitori senza poi segnalarlo a Siope, la piattaforma digitale del ministero dell’Economia; ma è certo che la banca dati non comprende i vecchi debiti residui del 2013, 2014 e 2015. Ed è un paradosso che dalla piattaforma manchino le posizioni verso i creditori di tutte le almeno ottomila imprese controllate dalle autorità locali: da quest’anno i loro conti vanno consolidati nei bilanci dei comuni o delle regioni che le possiedono, eppure le aziende stesse non sono (ancora) obbligate a fare trasparenza come gli enti.

Tutto ciò rende prudente una stima: nelle sue varie forme, lo Stato ha debiti commerciali arretrati verso le imprese per oltre 50 miliardi di euro. Almeno. Fosse così, sarebbero tre punti di Prodotto interno lordo sottratti (solo per ora, si spera) al settore produttivo.

Niente di tutto questo significa che il sistema sia bloccato come prima. Il lancio della piattaforma digitale Siope, la scelta di fare trasparenza su chi la abita e anche solo un’occhiata alle relative posizioni suggerisce il contrario. Dal governo e dalla Ragioneria generale dello Stato arriva una spinta a saldare i debiti e accorciare i tempi. E molte amministrazioni iniziano ad adeguarsi: non solo pagano nei tempi, ma adempiono all’obbligo di comunicarlo a Siope. Per esempio l’Istituto di previdenza Inps è stato fatturato per 1,2 miliardi nel 2016 e ha fatto sapere di aver pagato il 98% del dovuto con un ritardo medio di ulteriori 29 giorni oltre i termini di legge di 30 giorni. Il Senato doveva 36 milioni, anch’esso ha saldato il 98%, ha informato la Ragioneria e il suo ritardo medio è di tre giorni. Anche l’Istat è al 98% e ha un ritardo medio di tre giorni.

Poi ci sono gli altri. Sono quelli che risultano a zero: non un solo euro ufficialmente saldato ai fornitori per l’anno scorso. Malgrado l’obbligo di pagamento e malgrado l’obbligo di comunicazione alla Ragioneria dello Stato. Qui i casi sono tre: o sono inadempienti per non aver pagato, o lo sono per non averlo comunicato o lo sono per entrambe queste ragioni. In ogni caso gli enti di questa categoria sono numerosi, perché sugli oltre 13 mila della piattaforma poco meno di settemila non dichiarano il pagamento di un solo cent dei loro 9,7 miliardi in debiti commerciali accesi nel 2016. Fra questi figurano i soliti sospetti, i comuni in difficoltà del Sud: Catania che deve 194 milioni o Foggia 86. Quindi compaiono alcuni nomi eccellenti dei quali figurano i debiti verso i fornitori, ma non i saldi effettuati. Si va dalla Banca d’Italia (fatture per 327 milioni), alla Camera (93 milioni), alla Segreteria della Presidenza della Repubblica (16 milioni), al Garante della Concorrenza (9,8 milioni). Da verifiche del Corriere, tutte queste amministrazioni risultano relativamente in linea con i saldi ma per varie ragioni — interpretazioni di legge, adeguamenti informatici — la loro posizione non è aggiornata su Siope. La Banca d’Italia sta per aggiornare; il Quirinale ha pagato 4.143 delle sue 4.680 fatture del 2016 con 52 giorni di tempi medi; la Camera comunica di aver saldato 86 dei 93 milioni dovuti anche se — si spiega — non avrebbe aderito a Siope.

Quanto al governo in senso stretto, Palazzo Chigi più ministeri, il debito commerciale verso le imprese per il 2016 è di 3,5 miliardi. Dalla banca dati della Ragioneria, altri ritardatari (o inadempienti) illustri risultano l’Istituto per il commercio estero, l’Ente nazionale del turismo, l’Expo, l’Ente aviazione civile Enac, le due Aziende sanitarie locali di Milano (1 e 2). Senza parlare dell’Italia profonda: 911 Ordini professionali in tutte le categorie e città, più 90 Consigli notarili locali, più altri 90 Consigli di ordini territoriali sembrano non aver pagato un solo euro. Dalle associazioni degli ingegneri, agli architetti, agli agronomi, ai notai, agli avvocati e geometri. Eppure la trasparenza digitale può solo aiutare i loro iscritti che forniscono lavoro e prodotti allo Stato.

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