giovedì 6 dicembre 2018
LA CREDIBILITA’ DI CONFINDUSTRIA? RICORDATE SOLO CHE CON RENZI STAVANO A 90°: una manica di succhiasoldi di stato che nulla c’entra con la vera imprenditoria italiana
Giorgio Gandola per “la Verità”
Dodici caffè pagati. È il prezzo che Confindustria chiede al governo per smettere di tenere il broncio sulla manovra, e che fa dire a un colonnello leghista: «Gira e rigira sempre di sovvenzioni si tratta». Battute a parte, c’ è del nervosismo dentro l’ associazione degli imprenditori, riunitisi a Torino per alzare la voce sulla necessità delle infrastrutture,
a cominciare dalla Tav.
In una lunga giornata il vicepremier Matteo Salvini e il presidente Vincenzo Boccia hanno occasione per incrociare le parole più volte per polemizzare e per tornare a dialogare. A conferma che il governo non può fare a meno di parlare a tre milioni di imprese e gli industriali italiani non riescono a evitare di appendere i loro destini alle stampelle governative.
Davanti a 3.000 industriali in rappresentanza di 12 sigle, lunedì sera il presidente Boccia aveva acceso la miccia contro l’esecutivo con una frase atomica: «Se fossi in Giuseppe Conte convocherei i due vicepremier e chiederei loro di togliere due miliardi per uno, visto che per evitare la procedura d’infrazione dell’ Europa bastano quattro miliardi. Se qualcuno rifiutasse, mi dimetterei».
Poi ieri, in un’intervista al secondo quotidiano della Confindustria (La Repubblica) – che negli ultimi anni ha abbandonato con entusiasmo le istanze degli afflitti per abbracciare quelle del partito del Pil voltando le spalle perfino a Bob Kennedy – ha aggiunto: «Lanciamo un allarme, senza crescita rischiamo di finire dentro un’ altra recessione.
Il tempo degli alibi è finito, come quello del capitalismo di relazione. Quel mondo non c’ è più e noi siamo i primi a saperlo».
Il concetto bolle per tutta la giornata e lo scoop di Boccia, in un sistema industriale nel quale il capitalismo di relazione è ancora l’unico a tenere banco nell’Italia in cui tutti si danno del tu, è da marziani. Salvini decide di sferzare il numero uno di Confindustria e poi di ricucire: «Siamo qui da sei mesi, ascolterò e incontrerò tutti, ma lasciateci lavorare. C’ è qualcuno che è stato zitto per anni quando gli italiani, gli imprenditori, gli artigiani venivano massacrati. Ci lasciassero lavorare e vedranno che l’Italia sarà molto meglio di come l’abbiamo ereditata».
Salvini intende la lunga traversata del deserto della crisi, con governi (Monti, Letta, Renzi, Gentiloni) impegnati a tappare i buchi delle banche, a salvaguardare le rendite finanziarie, ad abbellire le narrazioni fasulle di rinascita industriale mentre le aziende chiudevano, licenziavano, delocalizzavano, si fondevano per incorporazione con marchi esteri avviando operazioni di macelleria sociale nel silenzio dei vertici di Confindustria.
Il vicepremier però tende la mano: «Se incontro Boccia anche domani gli offro un caffè volentieri». Il numero uno degli industriali accetta ma alza metaforicamente il prezzo: «Apprezziamo la disponibilità del ministro che ha detto che le sue porte sono sempre aperte, ma un caffè non basta, questa volta ce ne vogliono 12 perché l’ invito deve riguardare tutte le categorie che erano presenti a Torino». Sarebbe finita qui se non ci fosse il numero due di Confindustria, Alessio Rossi, a ruggire neanche fosse Maurizio Landini davanti a Silvio Berlusconi: «Salvini vive in un altro Paese. Noi parliamo, critichiamo e cerchiamo di fare il bene del nostro Paese. Lui fa battute».
Non c’ è dubbio, il volume della radio è alto. Solo un’altra volta nel recente passato Confindustria aveva evocato la parola recessione: nell’estate 2016 prima del referendum costituzionale, quando il suo Ufficio Studi aveva snocciolato dati da Repubblica di Weimar per giustificare l’ appoggio al Sì tanto caro a Matteo Renzi. Allora l’ associazione, politicizzata in modo imbarazzante, vaticinò la perdita di 600.000 posti di lavoro, il crollo del Pil (-4%) e il ritorno all’ homo faber nel caso in cui avesse vinto il No. Ovviamente nulla di tutto questo accadde.
È legittimo che gli industriali possano lottare per vincere sui mercati internazionali con il supporto del sistema Paese alle spalle. Ma dietro le parole di Boccia – che nella sua salottiera gestione da circolo della caccia ha perso per strada una buona percentuale di piccole e medie imprese – ci sono due realtà impossibili da nascondere.
La prima è quella d’ una Confindustria che non chiede di poter essere lasciata libera di correre nelle praterie della competitività, ma pretende ancora una volta sovvenzioni: taglio del cuneo fiscale, finanziamenti per entrare nell’ Industria 4.0, conferma di tutte le detrazioni alle imprese.
La seconda è la reazione nervosa a un pericolo incombente: un’ eventuale decisione del governo di far uscire dal club le aziende di Stato (Eni, Fincantieri, Ferrovie, Rai, Poste, Leonardo) per Confindustria sarebbe un colpo mortale. Senza i contributori più pesanti, in viale dell’ Astronomia non riuscirebbero a pagare neppure le bollette della luce.
Poiché l’ idea è di Salvini, è possibile che alla fine i 12 caffè li paghi Boccia.
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