(Franco Bechis per Libero Quotidiano) – Fino alla metà degli anni Novanta l’ Italia era uno dei motori dell’ economia del vecchio Continente, e salvo la crisi del 1992-1993 le variazioni del suo prodotto interno lordo ogni anno erano fra le migliori 10 di quella che oggi chiamiamo Europa a 28. Poi un giorno alla guida del governo di Roma arrivò Romano Prodi, si mise in testa di fare entrare l’ Italia nell’ euro rendendo tutti più felici grazie al pagamento di una tassa pensata proprio per quello (l’ eurotassa), e improvvisamente quel motore si inceppò.
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Nel 1996 la performance italiana scese dall’ 11° al 20° posto della classifica, l’ anno dopo scivolò al 24° posto e giù sarebbe restata alzando un poco la testa solo nel 2000 e 2001 (19° posto). Dall’ anno successivo fino ad oggi quella che un tempo veniva declamata come la quinta economia del mondo, è restata stabilmente fanalino di coda dell’ Europa a 28. Che ci fosse recessione o ripresa poco contava, il risultato del Pil italiano ha sempre oscillato durante 15 anni fra il 24° e il 27° posto nella classifica dell’ Europa a 28.
Con due sole eccezioni: l’ anno più orribile della crisi – quel 2009 con il Pil che scese di 5,5 punti che però era il 14° risultato in Europa – e l’ anno successivo, il 2010, dove il rimbalzino dell’ 1,8% portò l’ Italia al 12° posto in Europa. Quella sul Pil non è una classifica da campionato di calcio, ma è l’ indicatore dello stato di salute di un paese e della efficacia delle politiche economiche che lì si adottano.
Ogni forza politica utilizza i dati di questo o quell’ anno come fossero una medaglia da mettersi sul petto: cresciamo grazie a quel che abbiamo fatto, scendiamo un po’ meno perché siamo stati bravi. A parte che la medaglia ha poco senso quando finisci sempre in zona retrocessione, è evidente che le scelte di politica economica dei molti governi italiani che si sono succeduti in questi tre lustri, sono state semplicemente inefficaci: nemmeno un’ aspirina o una pillola ricostituente.
Eppure per quanto in modo talvolta maldestro in quegli anni si sono alternati premier diversi come Silvio Berlusconi, Romano Prodi, Mario Monti, Enrico Letta e Matteo Renzi, ognuno con programmi e ricette economiche particolari. C’ è chi ha provato ad abbassare le tasse, e lo ha fatto su blocchi sociali diversi, chi le ha aumentate, chi ha provato a tagliare parte della spesa pubblica, e chi tutt’ altra parte. Il risultato per tutti è stato identico: nulla.
Un candidato premier serio oggi analizzerebbe quei dati, convocherebbe i migliori economisti del paese e chiederebbe loro una risposta a una domanda semplice: perché dal 2001 ad oggi nessuna scelta di un governo italiano è riuscita ad agganciare il ciclo economico del momento? Perché ogni misura adottata ha avuto l’ effetto esattamente opposto a quello che ci si augurava, sempre frenando e non aiutando l’ economia italiana?
Ieri sul Corriere della Sera Federico Fubini citava il contenuto di un “occasional paper” pubblicato a dicembre dalla Bce dove un gruppo di economisti di più paesi analizzava i dati di questi 15 anni arrivando a conclusioni simili, e mettendo in evidenza come in questo arco di tempo sia il pil pro capite che il reddito pro capite degli italiani sia sceso a capofitto. Il reddito pro capite è scivolato del 12% fra il 1999 e il 2007 e un po’ meno proprio in piena crisi economica, fra il 2008 ed oggi (-11%).
Cifre di natura diversa, ma che in fondo dicono la stessa cosa: dal momento in cui è entrata nel sistema di regole della moneta unica l’ Italia e con lei gli italiani si sono grandemente impoveriti. Sembra essere in quel momento storico la risposta in grado di spiegare quella serie di dati: l’ euro, ma soprattutto il sistema di regole che si porta dietro, è la ragione di quella caduta economica da cui l’ Italia non è più in grado di sollevarsi. Un sistema che in gran parte d’ Europa viene interpretato con categorie più morali che economiche, con la chiave virtuoso/vizioso e non efficace/inefficace.
Ma la chiave morale è fuorviante: ogni paese ha una struttura economica diversa dall’ altro, e l’ Italia ce l’ ha diversa da tutti gli altri paesi. È la sola economia che si regge su milioni di piccole e medie imprese, che è fortemente frastagliata, e ha perso l’ unica dorsale che l’ accompagnava, quella dello Stato.
Questo tipo di struttura ha evidentemente bisogno di libertà di movimento, di creatività e fantasia per affrontare il mercato, e soffre più di ogni altra maglie rigide, regole che alla fine ne impediscano l’ azione. Dal trattato di Maastricht al Fiscal compact questa economia è stata imbavagliata e immobilizzata più di ogni altra, soffrendo danni ancora peggiori dalla stretta delle regole bancarie con i tre accordi di Basilea via via entrati in vigore. Quella stessa struttura frazionata dell’ economia spiega invece la migliore resistenza dell’ Italia davanti allo tsunami della crisi economica internazionale: ha assorbito meglio di altre l’ ondata che travolgeva tutti sminuzzandola in tanti rivoli più assorbibili.
Accettare quel sistema complessivo di regole è stato un rischio grosso per l’ Italia e a consuntivo possiamo dire certamente un danno. Pensare che oggi parte di queste regole (il fiscal compact, il deficit strutturale consentito etc…) invece di ammorbidirsi possano diventare ancora più rigide grazie al nuovo schema di governance dell’ euro che oggi presenterà il presidente della commissione europea Jean Claude Junker, fa venire letteralmente i brividi. È giunto il momento per l’ Italia di mettersi davvero di traverso.
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